qui è possibile scaricare tutti i racconti di Paolo Rotilio, autore de “La notte in cui morì Nero Wolfe”:

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IL MONDIALE DEL SETTANTA:

 

“Le troiane Porte Scee e la porta di Maier si confondono nel cervello stranito di tutti»

                                                                                                                                   Gianni Brera

Una, due, tre, quattro, cinque, dieci, cento, mille e più animelle di cera in pena. Procedevano tutte diritte, in due file simmetriche e ordinate, con una rapidità così rapida che le loro scintille sembravano staccarsi di continuo dalla loro stessa origine. Pochi istanti di requia eterna e di nuovo l’avanzata che non consentiva mai di guadagnare alcun centimetro di vantaggio su di Lui, il Santo, il Santo Antonio che pure a quella velocità processuale mai si era visto trasportare.

Non assiso, quel santissimo Santo, ma fieramente in piedi a guardare la sua gente sulla bella macchina elevata, impreziosita per amore e devozione; tutto intorno l’odore di un giglio intenso, pronto anch’esso a spandersi ovunque come spruzzato da un misterioso e gigantesco spray. E quella lenta quanto orgogliosa nenia “O Sant’Antonio, prega per me…”  a sfumare via in una dissolvenza finale dal ritmo ben più indiavolato. Forse uno schiocco di dita, forse un frenetico arrivederci. Sembrava tutto così ordinatamente incontrollato: ceri, macchina, Santo, fiori, profumi, persone, forze dell’ordine, autorità civili e religiose. Incontrollato, termine che non poco peso avrebbe avuto nelle successive vicende.

Il maresciallo Ernesto Bonaloni, mai così “in pieno e coscienzioso servizio”, come in quella serata del 21 giugno 1970, non si trovava però risucchiato da quel vortice inatteso. Lo guardava solamente, esterrefatto questo sì, dall’alto di una finestra della Questura di Rieti che mai, praticamente dal mercoledì prima, aveva potuto lasciare per risolvere quello che i giornali avevano chiamato come “Il delitto di Italia-Germania 4-3”. Guardava e non capiva.

Si limitò a indirizzare uno strillaccio verso il quasi appuntato De Santis al quale era stato affidato un solo compito, neanche di così elevata complessità: avvertirlo, mentre era impegnato strenuamente nella sala interrogatori a torchiare il presunto colpevole, appena si fosse palesata all’orizzonte la Statua del Santo, così che il sottufficiale, credente esattamente a metà (nel senso che la parte praticante lasciava ampi margini di miglioramento), potesse accorrere a rendergli il proprio saluto, e chissà, la propria intima preghiera. Da buon reatino.

Invece niente. La piccola vedetta questurina gli aveva fatto perdere l’attimo. Non per distrazione  o, ancora peggio, per violazione della specifica consegna ricevuta. Solo perché quell’attimo era risultato davvero scappante. Fuggevole e imprevedibile. Quindi, inafferrabile anche per il più bravo poliziotto del mondo. Figuriamoci per De Santis. Non era proprio da lui riuscire a collegare tutti gli orari di quella mite serata di inizio estate e soprattutto l’accavallarsi di due eventi davvero straordinari come la Processione dei Ceri e la finalissima dei Campionati Mondiali di Messico ’70: Italia-Brasile con fischio d’inizio alle ore 20.00 in punto, ora italiana. Che comprendeva, fino a prova contraria, anche l’ora di Rieti.

Il quasi appuntato si era, al contrario, affidato alla più tradizionale normalità e, avvistata alle 19,25 in punto la statua del Santo Antonio scendere lungo il lieve pendio di via Garibaldi, in direzione Porta D’Arce, non si era proprio accorto che non stava procedendo lentamente, ma che di fatto correva. Proprio così, correva! Ma non per battere un inesistente record di percorrenza quanto per consentire a tutti di arrivare in tempo a vedere la partita.

«Ma scusami, De Santis – esordì con naturale stupore Bonaloni, che pure al fascino del calcio era estremamente sensibile  – ma i fratelli di Sant’Antonio cosa dicono, cosa fanno?» La risposta fu, se possibile, ancora più sorprendente.

«Sono i primi che corrono tra le due ali della processione, sembrano tanti Domenghini per quanto corrono! Sono letteralmente lanciati sulle fasce!»

«E le vecchine con quei ceri così pesanti?» Stavolta la domanda del sottufficiale di polizia assunse un tono davvero preoccupato.

«Corrono pure esse, marescia’, e devi vede’ come filano svelte… pure esse pedalano… Cantano, portano (i ceri) ma pedalano!»

«Roba da matti!» Esclamò il maresciallo che pure il timore di non poter vedere la partita lo avvertiva con sempre maggiore consapevolezza. Almeno dal primo pomeriggio di quella stessa domenica quando aveva ormai già ben compreso che la confessione di Beniamino Cerroni, detto Mino, camionista di anni 44, non sarebbe poi giunta facilmente. Eppure, nei suoi confronti tutto sembrava così schiacciante. Almeno all’apparenza. La moglie trovata morta strangolata a casa nella notte del mitico 4-3 di Italia Germania, le testimonianze, seppure indirette, che sembravano inchiodarlo alla sua terribile responsabilità, la mancanza di un alibi, anche il più misero, che potesse sostenerne la  versione circa la sua non presenza al momento del delitto.

«È stato un ladro!» Aveva ossessivamente ripetuto il Cerroni a ogni domanda all’apparenza risolutiva. E da lì non si schiodava. Con Bonaloni a girargli intorno, vestito ormai da giorni di pantaloni neri e camicia bianca, sempre più incazzato tanto era convinto della falsità di quella ostinata difesa a oltranza.

«Neanche l’Inter di Helenio Herrera poteva vantare un catenaccio tanto ferreo!» Era la sconsolata metafora calcistica del maresciallo. Al Cerroni non interessava neanche quella.

«È stato un ladro! Un ladro ha ucciso la mia povera Luigina! Dovete prenderlo e voi continuate a rompere le palle a me!»

Così si ricominciava. «Sai benissimo che almeno tre vicini di casa hanno sentito un terribile “nooooooo!” gridato da una voce maschile – avrebbe incalzato Bonaloni in ogni rinnovato terzo grado – intorno alle 1.20. E sai spiegarmi perché un ladro lo avrebbe fatto, con il rischio di farsi scoprire da tutto il caseggiato? E non c’entra proprio nulla che quel grido sia arrivato proprio nei momenti successivi al gol decisivo di Rivera?»

«E che ne so? Forse quel maledetto ladro si sarà impaurito per essere stato sorpreso dalla mia povera moglie mentre stava rubando… E poi, se io fossi stato a casa, secondo lei avrei gridato “noooooo! al gol dell’Italia? Non avrei esultato? Eh, mi dica lei: non avrei esultato? Strillato sì, ma di gioia, di gioia incontrollata!»

Una risposta inappuntabile. Anche se a Bonaloni procurò un vero e proprio brivido solo il termine “incontrollata”. Non sapeva però spiegarsi il perché. Quindi proseguì, cercando di capire almeno l’illogicità del comportamento dell’ipotetico ladro anche attraverso il parere dell’interrogato. «Se è stato un ladro, sapresti spiegarmi perché non è semplicemente scappato via o datole una spinta più o meno vigorosa per scansarla via? Perché uccidere una donna a mani nude, che non poteva di certo rappresentare un vero pericolo per lui. Per il ladro, intendo!»

Alla domanda di Bonaloni, ripetuta chissà quante volte in quei giorni,  Cerroni non si era però mai fatto cogliere impreparato, anche fosse stato per un solo istante: «chissà forse la mia povera Luigina lo aveva riconosciuto e….» puntualmente il sospettato scoppiava a piangere, con tanto di quei sospiri e lacrimoni che quella disperazione avrebbero fatto apparire sincera a chiunque. Invece, no. Per il sottufficiale si poteva trattare, al massimo, di un ritorno di fiamma del rimorso per il terribile gesto di cui il camionista era stato autore e protagonista. Non aveva dubbi. Doveva, però, dimostrarlo. E non era semplice, specie di fronte a quella ostinazione che restava difficile da perforare. Appunto, come l’impenetrabile difesa del mago Herrera.

Il maresciallo aveva così ripreso l’interrogatorio. Anche in quella sera in cui aveva ormai già irrimediabilmente persa l’occasione per omaggiare il Santo Antonio e in cui rischiava anche di non vedere una sola immagine via satellite della finale storica che avrebbe assegnato definitivamente la Coppa Rimet tra Italia e Brasile. Al suo fianco la guardia scelta Rinaldi che, teoricamente, avrebbe dovuto vestire i panni del “cattivo”, o almeno dello sbirro dalla faccia truce e dai modi bruschi. Niente di tutto questo. Rinaldi non ne era proprio capace. Né per gentilezza dei lineamenti, né per predisposizione mentale. Ma era davvero il massimo, come forma di “cattiveria” poliziesca, che la Questura di Rieti poteva offrire.

Tornò a guardare fisso negli occhi di Beniamino Cerroni. Per la prima volta gli sembrarono spenti. Sperò fosse sul punto di cedere. Si disilluse rapidamente. Quella dell’interrogato era solo una rassegnazione diversa. Aveva ormai capito anche lui che assistere in televisione a Italia-Brasile non era proprio possibile. «Ma se non sei stato neanche tra i trenta milioni di italiani che hanno seguito Italia-Germania – lo incalzò immediatamente Bonaloni – che ti frega adesso della finale?»

Cerroni aveva raccontato che, non trovandosi quella sera a casa, era andato in giro per la città «per rilassarsi» dopo essere tornato da un lungo viaggio in camion proprio nel pomeriggio;  quindi si era fermato al Bar Shelby, in piazza Marconi. Solo che lì, nessuno lo aveva visto, né amici né il gestore che pure aveva indicato come testimoni a proprio favore. «C’era davvero tanta gente a vedere la tv, sarò passato inosservato! Forse non ricorderanno, si confonderanno! Che ne posso sapere?» Aveva replicato il Cerroni di fronte alla contestazione dei poliziotti.

«E allora spiegami come mai ai precedenti gol dell’Italia i tuoi vicini hanno sentito grida di giubilo provenire da casa tua?»

«Ma quali grida di giubilo – fu la risposta pronta del Cerroni – io a casa non c’ero proprio… si saranno confusi con qualcun altro… in quella notte era tutto un casino…» Poi cercò di portare a proprio vantaggio una precedente notazione del maresciallo. «L’ha detto anche lei che a vedere la tv erano circa trenta milioni di italiani… Magari sarà stato tutto un giubilo.Ccome fate a dire che veniva solo da casa mia?»

Bonaloni non raccolse. Preferì passare al contrattacco. «Va bene, niente tue grida di giubilo. E allora come mi spieghi altri “noooooo!” provenire dalla tua casa, anche quando non giocava l’Italia?» Si fece consegnare un foglietto da Rinaldi che, come da ruolo prestabilito, glielo porse in maniera “cattiva” con un «tié» che indispettì non poco Bonaloni. Lasciò perdere, preferendo concentrarsi su quanto scritto nel rapportino.

«Ecco qui, 12 maggio, registrato un grido quasi lacerante, tanto che un vicino bussò alla tua porta temendo che fosse successo chissà cosa… Ti ricordi? Gli spiegasti che si era rotta la bottiglia del vino, cadendoti dalle mani… E poi quell’altro “noooooo!” un po’ più fresco, risalente allo stesso giorno di Italia-Germania. Solo un po’ prima, diciamo verso le 22.40.»

Beniamino Cerroni alzò le mani verso l’alto, all’improvviso, aprendole come due gigantesche palanche, quindi le congiunse all’altezza del petto come volesse pregare. Sospirò profondamente. «Marescià, come ve lo devo dire? In ginocchio? Io a casa mia, quella sera non c’ero! Uscii poco dopo aver cenato, intorno alle 21,30, e ritornai verso le due di notte… Allora sì che gridai “nooooooo!” vedendo la mia povera moglie con quei segnacci sul collo, in cucina, senza vita! Ma quel “nooooooo!”, non se lo ricorda nessuno, eh! Quello vero non ha validità, quegli altri fasulli sì!» E liberò bruscamente le mani, facendo temere ai due poliziotti che volesse scagliarle su di loro. E non sarebbe stato piacevole, vista le loro dimensioni, fuori dal normale.  

Ricollocate, quelle mani, più o meno al loro posto, i due poliziotti regredirono dalla repentina condizione di allerta, riacquisendo in pieno lo status di legali inquisitori. Bonaloni, in particolare, si sentì in dovere di fare una verifica, sfuggitagli in precedenza, forse per stanchezza, forse perché in ogni caso quello che intendeva controllore non avrebbe ugualmente prodotto la prova decisiva.

Uscì dalla sala e pregò Rinaldi di recuperare l’esame autoptico, corredato delle foto della poveretta uccisa, non prima di aver raccomandato al suo sottoposto di evitare un altro sgradevole «tiè’» al momento della consegna dei documenti richiesti. Con ogni probabilità gli avrebbe anche indirizzato contro una minaccia di trasferimento nell’isola chiamata Sardegna se non fosse stato che, scorrendo la relazione del medico legale, la sua attenzione venisse rapita dalla conferma che la morte della donna non era avvenuta “per asfissia da strangolamento ma causata dalla rottura di tutte le vertebre del collo come se ad agire fossero state mani fuori dal comune, dotate di grande forza e rapidità, con effetti del tutto simili a quelli prodotti da un cappio durante un’impiccagione.»

Bonaloni rabbrividì non poco e non poté fare a meno di ripensare alle colossali mani di Beniamino Cerroni, di sicuro adatte a trasformarsi in un perfetto strumento da boia. Peccato che tutto era indimostrabile. Piuttosto, un altro particolare colpì non poco il maresciallo: in quell’ufficio, lungo i corridoi e nelle altre due stanze di quel piano della Questura non c’era più anima viva. «La partita, marescià – lo avvertì Rinaldi – stanno tutti a vede’ la partita. Mica se ne sarà scordato? Tra dieci minuti inizia Italia-Brasile!» Poi aggiunse una postilla che avrebbe fatto meglio a risparmiarsi. «Che l’andiamo a vedere pure noi?»

«Certo, te la faccio vedere in cima al Gennargentu! Da lassù, dove l’aria è rarefatta come in Messico, si vedrà anche meglio!» Bonaloni era davvero incazzato. La minaccia di trasferimento seduta stante, prima rimastagli a fatica sul piripizzulo della gola, era stata ora, finalmente, espressa in tutto la sua chiarezza. «E che cazzo! Un poliziotto “in pieno e coscienzioso servizio” tale deve essere! Però…» Però si poteva pur sempre organizzare una filodiffusione di tipo umano, o meglio una catena informativa che avesse potuto garantire a lui e a Rinaldi di essere puntualmente informati di quanto accadesse all’Azteca di Città del Messico. Non ritenne, invece, necessario aggiungere che tutto facesse parte di un particolare schema tattico il cui unico fine era quello di far cadere in trappola Cerroni.

Primo atto, gli inni nazionali. Diede disposizione che dalla sala televisione, collocata al piano superiore, venissero sparati a volume altissimo sia la Marcha triunfal brasiliana che il nostrano Fratelli d’Italia. Il primo effetto, all’interno della sala interrogatori, lasciata volutamente aperta, non tardò a mostrarsi. Cerroni quasi tremava per l’emozione, sudava, riusciva a trattenere a fatica il controllo, si era davvero trasformato in una bestia in gabbia. E se gabbia doveva essere, che lo fosse fino in fondo. Così, Bonaloni chiuse con un calcione la porta impedendo che qualsiasi altro suono, e tantomeno la cronaca dell’incontro, potesse penetrare in quella stanza.

Non si aspettava, però, di farsi sorprendere dal sospettato, che aveva recuperato la calma del più forte. «Ma Felix gioca? Speriamo di sì perché come tutti i portieri brasiliani è una gran sega…» Lo prevenne sciaguratamente Rinaldi che domandò subito ad alta voce «Felix è stato sempre il mio gatto preferito… ma cosa c’entra con il calcio?» Bonaloni si limitò solo a una conferma verso Cerroni, accompagnandola con un cenno della testa per nulla felino: «Sì, Felix gioca!»

La partita decisiva era iniziata. In tutti i sensi. Non restava ora che attendere quello che una finalissima mondiale, specie di così elevate prospettive emozionali, potesse dispensare in termini di azioni imperdibili, quindi assolutamente da guardare.

Stadio Azteca di Città del Messico, telecronaca di Nando Martellini, 18’ del primo tempo; cross di Rivellino, stacco imperioso di Pelè su Burgnich, Albertosi battuto: Brasile 1-Italia 0. Spettò a De Santis effettuare la sintesi all’orecchio destro di Bonaloni che provvide, a sua volta, alla comunicazione in lieve differita in sala interrogatori: «1-0 per il Brasile.» Rinaldi sorrise come un abatino, forse sentendosi ingiustamente escluso dalla vivacità di quella finale, Cerroni si limitò solo a un gesto di stizza, accompagnato da una manata sul tavolo in formica che componeva, insieme a tre sedie, lo scarnissimo mobilio di quella sala. Non moltissimo rispetto a ciò che si attendeva Bonaloni, ma pur sempre qualcosa.

Stadio Azteca di Città del Messico, 37’ del primo tempo, lungo lancio per Riva, uscita sconclusionata di Felix (Cerroni non aveva proprio torto sulla scarsa qualità del portiere brasileiro), rischio di incomprensione tra Rombo di tuono e Boninsegna, infine il più lesto a infilare la porta sguarnita dei verde oro. Brasile 1-Italia 1. Nuova sintesi di De Santis, seconda comunicazione in lieve differita di Bonaloni: «Pareggio dell’Italia! Boninsegna!» Stavolta il maresciallo non ebbe da attendere. Cerroni si alzò di scatto, emise un grido belluino di gioia e scattò. Scattò verso la porta, che trovò chiusa a chiave, avendo Bonaloni intuito questo tipo di possibile reazione del sospettato. Incontrollata.

«Voglio andare a vedere il gol! Il gol dell’Italia!!! Lo voglio vedere» Sembrava impazzito. «Fatemi uscire, vi prego! Il rallenty, magari faccio in tempo a vedere il rallenty… il rallenty… fatemi vedere almeno il rallenty… almeno questa volta voglio vedere il rallenty!»

Bonaloni drizzò le orecchie. Iniziò a intuire cosa potesse essere accaduto tra le mura famigliari la sera di Italia-Germania e nelle altre occasioni in cui Cerroni, ne era ormai certo, aveva spedito verso il cielo il suo disperato “nooooo!”

Ultima comunicazione secca e concisa: squadre negli spogliatoi sull’1-1. Tutto rimandato al secondo tempo. Stadio Azteca di Città del Messico, 21’ del secondo tempo, azione personale di Gerson che dai 25 metri scagliava un gran tiro dalla traiettoria impossibile per Albertosi: Brasile 2-Italia 1. De Santis, la cui consegna era quella di non tradire emozioni al momento della comunicazione, bussò di nuovo alla porta della sala interrogatori.

Rimase al di qua della soglia, avendogli Bonaloni impedito di farsi ulteriormente avanti, come già sapesse cosa il quasi appuntato dovesse trasmettergli nel proprio padiglione auricolare di destra. Quindi, chiusa la porta con delicatezza dietro di sé, avanzò di un paio di passi verso Cerroni, aprendosi gradatamente a un sorriso sempre più ampio. L’altro lo guardava sempre più impaziente, con un desiderio anche fisico di sapere. Il maresciallo ruppe gli indugi. «Mazzoooola – gridò con tutta la voce che aveva in corpo – Mazzooola ha portato in vantaggio l’Italia! 2-1 per noi e nuova papera di Felix!»

Cerroni prima osò l’inosabile, provando addirittura ad abbracciare Bonaloni Ernesto che,  menzogna per menzogna, si credette all’istante anche un perfetto toreador, schivando con agilità e di netto l’improvvido tentativo di quell’assassino. Quindi lo guardò con disprezzo, e senza impietosirsi, mentre con goffaggine quell’uomo tentava di raddrizzarsi dopo aver perso l’equilibrio ed essere rovinato a terra. Biascicava qualcosa di incomprensibile. Sembrava impazzito. A stento il maresciallo e Rinaldi capirono che ancora una volta non aveva potuto vedere un gol dell’Italia ai Mondiali, prima di ritrovarsi, entrambi, letteralmente assaliti da quell’ossesso.

Bonaloni replicò con rinnovata abilità il suo precedente movimento in stile corrida. Rinaldi no, ritrovandosi sul collo un cappio formato da enormi mani umane. L’unica soluzione possibile per poterlo fermare in tempo, e ne valeva davvero la vita di un uomo, era appioppare al Cerroni un gran sediata sul groppone. Per la precisione, il più vicino possibile al capocollo, laddove fa davvero più male. Bonaloni eseguì, con grande soddisfazione personale e soprattutto con gran sollievo della sua guardia scelta Rinaldi, non appena prese coscienza di aver azzerato il rischio di finire seriamente impiccato.

Appena una decina di minuti di relativo intontimento che quel maledetto bestione era già di nuovo in piedi. Già pronto a sputare rabbia, anche contro quella poveretta che aveva barbaramente trucidato e verso cui non mostrò ancora un briciolo di umana, se non maritale, forma di pietà. «Quella lì – esordì, senza alcun ritegno – quella lì mi spegneva sempre il televisore. Una volta con la scusa della cena pronta, l’altra che doveva pulire casa, infine, la sera di Italia-Germania perché dovevo fare “il mio dovere coniugale”. Proprio così mi disse, il mio dovere coniugale. A me che stavo vedendo la partita del secolo, ferma su un incredibile 3-3!»

Un pazzo. Sembrava un pazzo. Bonaloni pensò fosse un bene non interromperlo, anche in caso avesse detto qualche bestialità calcistica. In altri momenti, lui che si riteneva, anche giustamente, un vero esperto e intenditore di football, non ci sarebbe passato proprio sopra. La ragione superiore di assicurare alla giustizia uno psicopatico gli sembrava più che sufficiente per sopportare.

Cerroni non si lasciò pregare. «Eppure l’avevo avvertita quella lì! Un giorno mi fece perdere (Bonaloni ricordò tra sé e sé che si trattava del 12 maggio 1970) la parata storica di Gordon Banks sulla ribattuta di testa di Pelè. Il portiere inglese aveva appena respinto una conclusione ravvicinata di Jairzinho quando, pluuf, si spense il televisore. L’aveva spento, quella lì l’aveva spento perché sul tavolo c’era pasta e patate! Capite, la parata del secolo, lo scatto di reni che avrebbe anche potuto sollevare l’intero campo di calcio, contro un piatto di pasta e patate! L’avrei strozzata già allora! Altro che “noooooo!”»

Rinaldi, che quel pericolo lo aveva corso qualche minuto addietro, sentì un brivido freddo corrergli su per le spalle fin su quelle vertebre cervicali che si sarebbero dovute fracassare sotto le manacce del camionista.

«Prima marescià mi ha detto di qualche ora prima di Italia-Germania? – riprese Cerroni, senza ormai più freni da porre alla sua confessione-liberazione – Ebbene, sa cosa mi sono perso?»

 Bonaloni non rispose, Sapeva che l’altra semifinale aveva visto la vittoria del Brasile per 3-1 sull’Uruguay ma a cosa si riferisse esattamente Cerroni non riusciva proprio a immaginarlo. «All’azione di Pelè e all’aggiramento di Mazurkiewicz, e dico Ladislao Mazurkievicz, all’altezza dell’area di rigore. Palla a sinistra e la perla nera dall’altra. E poi il tiro, cadendo all’indietro, che termina la sua corsa sul palo più lontano. Che meraviglia! Solo che me lo hanno raccontato gli amici, perché proprio in quel momento in cui Pelè era lanciato verso la porta avversaria, pluuf, la televisione si spense. Rientrò su se stessa. E sa perché? Perché mia moglie doveva collegare alla presa tv la spina dell’aspirapolvere. Ci pensa: una delle azioni più belle di Pelè contro un’aspirapolvere!»

Bonaloni non poté fare a meno di rivedere la propria diagnosi su Beniamino Cerroni. Sicuramente pazzo, ma calcisticamente preparato. Soprattutto gli era non poco piaciuta l’annotazione su Mazurkievicz, gran portiere uruguagio, tra i migliori del mondo e tra i più bravi al Mondiale del Settanta. Restava però da sentire il gran finale di Cerroni. Oddio, proprio grande no, vista la tragedia che si era consumata. Eppure, andava ascoltato con attenzione, da poliziotto e da esperto di calcio.

«L’avevo avvertita!» Cerroni esordì con estrema serietà, riferendosi alla propria moglie. «L’avevo avvertita che l’avrei strozzata se mi avesse ancora fatto uno scherzo simile!» Quindi, lo pervase una forma di “pentimento” davvero inusuale. «Se fosse ancora viva, potrebbe confermarvelo lei stessa, che l’avevo avvertita, voglio dire!» Bonaloni si limitò a un «Va bene, va bene…» al solo scopo di dargli via libera al prosieguo della confessione.

«Ah, che partita Italia-Germania! Magari non giocata molto bene. Ma che emozioni! Boninsegna, Schnellinger, Muller, Burgnich, Riva, Muller e al momento del tiro di Rivera verso la porta di Sepp Maier, pluuf, schermo risucchiato e totalmente nero! Mentre tirava Rivera! Capite! Dopo l’azione di Boninsegna… Nooooooo! E lei che mi dice che sono suo marito… suo marito durante Italia-Germania… di voler fare l’amore! Cioè, voleva fare l’amore durante Italia-Germania! Ma ci pensate! L’avevo avvertita e l’ho fatto!»

Non restava che ammanettarlo. Bonaloni lo guardò con una strana forma di disgusto. «Un assassino con il cuore di calcio!» pensò. Non lo assolse assolutamente. Però ritenne che avesse almeno diritto di sapere la verità e l’occasione si presentò qualche istante dopo quando fu Cerroni, appena fatto qualche passo, a chiedergli se l’Italia avesse vinto il Mondiale del Settanta.

«Ma va là, abbiamo perso 4-1! Pelè, Boninsegna, Gerson, Jairzinho e Carlos Alberto!»

«E il 2-1 di Mazzola? Era una fregatura, eh marescià! Non ci sarei dovuto cascare ma forse era destino e giusto che finisse così. Gianni Rivera doveva giocare, altro che Mazzola… Rivera!» 

Il Mondiale del Settanta era finito. Il più bello di sempre. L’unico che ogni calciatore, di ogni età e di ogni epoca, vorrebbe poter giocare.