“I soldati si mettono in ginocchio quando sparano,

                                                                               forse per chiedere perdono dell’assassinio”

                                                                                                         Lev Tolstoj

 

Se.. se… se.. Se solo. Solo se. Se…se…se…”  Per il maresciallo Bonaloni Ernesto, in pieno e coscienzioso sonno, fu un risveglio perlomeno dubitativo. Fortemente dubitativo. Aveva appena sognato un qualcosa di davvero sfuggente. Senza che gli fosse stata esplicitata la parte realmente ipotetica. Di realtà, irrealtà, possibilità o di impossibilità. Boh! Si era ridotto a (quasi) un atipico scioglilingua, ben distante da quelli tradizionali imparati da bambino tipo la “capra che sotto la panca campava…” “O forse cantava?”. O, ancora forse, l’esatto contrario. Bonaloni se lo chiese velocemente e aggiunse un velo pietoso al suo sgangherato ricordo, quasi fisicamente stendendolo sopra le due coperte che già lo proteggevano da quella notte novembrina, fredda e nebbiosa. Di quelle capaci di infilarti l’umidità in ogni dove ed in ogni parte del proprio corpo.

Improvvisamente, al maresciallo sembrò addirittura che quella coltre bagnaticcia giungesse a penetrargli testa e cervello. E che, colando all’interno goccia a goccia, inventasse un’originale tortura mentale. Che brutta sensazione! In fondo, non c’era stato alcun incubo; eppure gli sembrava di viverlo ora che era ben sveglio, a schiena diritta sul letto e gli occhi fissi su un punto imprecisato della sua stanza da letto.

Riuscì solo a sospirare un “Mah! Meglio cercare di tornare a dormire!”. Quindi, tirò su un paio di forti respiri, quasi a prendere coraggio verso un qualcosa di misterioso che sentiva, altrettanto misteriosamente, di dover presto incontrare. Quando? Lo ignorava. Solo una vaga, vaghissima sensazione che, presto o tardi, gli si sarebbe palesato proprio in quella notte. Diciamo che aveva ricevuto un segnale. Restava da capire come sarebbe arrivato il resto e cosa avesse riguardato. Un qualcosa di personale? Diretto ai propri famigliari? Preferì scacciare queste possibilità. Diede, infine, la colpa della sua irrequietezza notturna all’eccessiva quantità di patate in umido, e relativo spezzatino di vitella appena ‘ccisa da Asvero, ingurgitata la sera precedente. Ergo, poteva essere solamente una questione di tormentata digestione. E se non fosse stato così? Di lì a poco, la risposta. Bastava riprendere sonno. Da lì, solo da lì sarebbe giunta l’agognato responso. E da qualcuno che stava per effettuare la più incredibile delle chiamate.

Si girava e rigirava. Si rigirava e girava. E rigirandosi, si  ri-rigirava. Quel letto pareva un ottovolante. Di addormentarsi di propria volontà neanche a parlarne. Infine, fu il sonno a piombare su di lui. Senza avvisi o scadenze troppo brevi. Doveva dormire. Punto e basta.

 E ronfava anche, il buon Ernesto Bonaloni. Sembrava un mantaciu (mantice) appena rimesso in funzione. Ronfava della grossa, senza agitazione alcuna. Sembrava solamente che emettesse, con quei rumori sempre più simili a barriti, precisi richiami, quasi a dire: “Sono qui e sono pronto!” Vabbè, il maresciallo era bello grosso anche da dormiente, ma di sicuro non avrebbe mai voluto attirare una elefantessa. Magari bella, ma sempre elefantessa sarebbe rimasta. Fu il provvidente Morfeo ad abbassare, impietosito, soglia e decibel di quelle sonore emissioni notturne. Ora più simili a brusii, ritmati come un blues del Mississipi. Dodici leggere battute alla volta. Oddio, mai si era sentito parlare di fase Blues del sonno. Però, ora tutto era perfetto. Bonaloni possedeva ormai la necessaria calma; Morfeo la musica ideale di cui era segretamente appassionato, ed espletato il suo ultimo dovere di quella notte (gli altri che andassero pure al diavolo!) pensò fosse cosa buona e giusta schiacciarsi un pisolino rigeneratore.

Soprattutto, per Bonaloni si erano create le condizioni giuste per l’accoglienza. Ma di chi? Di cosa? La risposta arrivò ben presto, quando una testolina bionda si illuminò improvvisamente all’interno della sua mente. Un viso angelico e sereno, con occhi celesti che sembravano irradiare luce dovunque guardassero. Ed in effetti, rivolti verso il basso, accesero per intero sé stessa. Indossava una tunica bianca, lunga appena sotto il ginocchio, calzini candidi e scarpine a fibbia, prive della benché minima interferenza cromatica. Nessun monile. Una figura semplice e dolce. Di bambina. Era una bambina! La più bella che Bonaloni Ernesto avesse mai potuto vedere in vita sua.

Iniziò a parlare, con voce sottile e soave. “Mi chiamo Ninetta. Ebbi dodici anni e non un giorno di più per vivere insieme a voi. Ninetta!!! Quanto amai questo nome. Solo per un solo piccolo periodo ne rimasi disturbata: le mie amichette si chiavano Anna, Margherita, Elena, Maria…_ si fermò su questo none –Ah, quanto mi sarebbe piaciuto essere Maria… Poi, però, iniziai a preferire su tutti Ninetta! Mi dava un senso di straordinaria delicatezza e di immenso affetto. Volevo che tutti gli altri lo pronunciassero forte  ma mai ne provavo tanto amore – sembrò rattristarsi – se non quando viveva nella loro bocca, sulla lingua e sulle labbra dei miei genitori…perché sentivo davvero che usciva loro cuore!”

Si fermò un solo istante. “Ah, come vorrei fossero felici! Come vorrei non aver dato loro quel dispiacere estremo!.. Come vorrei che non mi avessero ricordato in quelle condizioni, in cui fui ritrovata in quel bosco buio e freddo! Ah, se solo avessi saputo quella mattina stessa di dover la sera morire, avrei sicuramente cercato il mio vestito più bello…Sì, sì quello tutto blu che a te mamma piaceva così tanto! Avrei messo le scarpe più belle… comprate insieme a te, sotto la mia infantile insistenza…perché mi dicevi che costavano forse troppo…Ah, se avessi saputo di lasciarti…ti avrei baciato per l’intero giorno e con te il mio papà…e poi sarei andata incontro al buon Dio con il mio abito migliore!”

Bonaloni Ernesto alzò il livello del suo brusio. Non capiva ancora chi fosse quella Ninetta. Fu uno scocciatissimo Morfeo a suggerirgli che avrebbe dovuto abbreviarlo in Nina. “La piccola Nina! Nina Rosati! La piccola uccisa nei boschi del Terminillo!” La guardò nel sogno e nel sogno stesso provò un lungo brivido che rappresentò inizialmente con un prolungato sibilo, trovando infine la forza di parlarle, di rivolgersi a quella figura eterea.

“Ma…ma il tuo collo è integro! Come è possibile?” La piccola Nina spostò il piede destro di lato, come si preparasse ad andare via. Il maresciallo le afferrò un piccolo lembo della tunica. “Aspetta ti prego! Dimmi come andò quel maledetto giorno? Chi fu il tuo assassino?”

Ninetta gli scostò la manona con la più grande dolcezza possibile. “Non posso più restare. Il nostro sogno sta finendo!”. E lo guardò profondo negli occhi. Inaspettatamente lo ringraziò. “So che anche tu soffristi! Soffristi…anche senza conoscermi e per questo ti sono grata…ma mi è impossibile parlare di quello che accadde! Non ce la farei e neanche mi è consentito! Ma tu che hai la capacità di saper cogliere le occasioni al volo, cerca solo una collanina d’oro con una tigre rossa…e tutto ti sarà chiaro…Ricordati! Una collanina d’oro con una tigre rossa!” E svanì via, mentre Bonaloni Ernesto si appropriava di un sonno tranquillo e profondo; non prima che Morfeo (seppure tra mille altri brontolii “E che cazzo qui non si può mai riposare!”) gli concedesse la reale fuori uscita di una sola lacrima.     

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Il maresciallo la asciugò la mattina, appena risvegliatosi. Soprattutto tenne nel massimo rispetto una goccia, la più abbondante, sfiorandola appena con l’indice destro quasi gli sembrasse acqua benedetta; la stessa, come un ruscello affluente, aveva poi finito per dare forma ad un minuscolo spazio lacustre nel cavo della sua guancia destra. Lo guardò, come fosse il lago più incantato del mondo. Per il resto, mai gli era capitato in passato di ricordare per intero i propri sogni. Al massimo, qualche piccolo spezzone da cui non ricavava, semmai lo avesse realmente desiderato, alcuna immagine o narrazione completa. Stavolta no. Avrebbe potuto ripetere le parole ricevute in quella notte una per una, chissà perché, chissà come. Avrebbe potuto dipingere un ritratto perfetto di quella bambina.

 “Un Angelo caduto”, l’aveva definita al momento del tragico ritrovamento, in quel faggeto, sul versante occidentale del Terminillo, proprio lì dove il cielo appare straordinariamente vicino e dove i tornanti finiscono di inerpicarsi uno dopo l’altro, messi in fila come le corone di quel Rosario che la famiglia Rosati aveva poi sgranato ad ogni successiva ascesa. Fin lì, dove adesso la pietà risultava graffiata dal vento e dalla pioggia su quel marmo che ricordava quella bambina, nel punto esatto del rinvenimento.

Appena poco più di quattro anni prima: sette settembre del Millenovecentosessantaquattro. Ricordava alla perfezione quella sera. Ma solo allora gli tornò in mente anche che quel giorno era il compleanno della Ninetta (“Ebbi dodici anni e non un  solo giorno di più!” e si emozionò ripensando alla frase ricevuta in sogno). Da lì bisognava ripartire: dal compleanno. Verificare se qualche bastardo le avesse regalato una catenina d’oro con appesa una tigre smaltata di rosso.

Un regalo abbastanza importante ed anche vistoso. Di sicuro, qualcuno se lo sarebbe ricordato. Forse i genitori, forse qualche amichetta con cui aveva festeggiato ad ora di pranzo e nel pomeriggio  prima di uscire per andare a comprarsi uno degli ultimi gelati stagionali e…non più tornare a casa. 

Rammentò anche perfettamente di aver giurato ai genitori ed alla sorellina della Nina che avrebbe preso quell’assassino. In realtà qualcuno lo fece per lui, individuando in un certo Orlando Parasassi, di professione idraulico, il colpevole. Solo che lui, Bonaloni Ernesto, in pieno e coscienzioso servizio, mai ne fu convinto. Tantomeno, dopo la condanna di quel pover’uomo, così continuava a definirlo, ad un ergastolo, sacrosanto solo se fosse stato effettivamente il responsabile di quello scempio.

Aveva così finito per svolgere un’indagine difensiva. Era divenuto una sorta di paladino d’altri tempi per Orlando. Gli suonava anche bene. Ne percepiva un senso epico. Di quell’uomo rivendicava l’innocenza e lo stesso fece anche durante il processo, incassando le infuocate invettive del capitano Mancuso, le prime in assoluto visto che nel ’65 si era appena trasferito a Rieti dal capoluogo etneo, suo luogo di nascita e di origine. Vero che il coltello che aveva tagliato la gola della ragazzina fosse di proprietà di Orlando e che le sole impronte digitali su di esso ritrovate gli appartenessero; vero che quell’uomo stesse lavorando poco distante, vero che fu visto parlare con Ninetta fuori dal bar-gelateria.

Ma restavano anche i punti oscuri: la bambina era stata vista per l’ultima volta alle 17.00 ed Orlando aveva lavorato, ininterrottamente, in una casa di quella via fino alle 19.00,  risultata poi, secondo il medico legale anche l’ora, più o meno esatta, della morte della vittima. Dove l’aveva tenuta in quelle due ore? Dove l’aveva uccisa? E come era stato possibile che non presentasse alcuna macchia di sangue sui suoi abiti? Semplice: per l’accusa, dopo averli buttati chissà dove, si era cambiato ed era tornato “tranquillamente” al lavoro da assassino consumato. Per Bonaloni non sarebbe stato possibile, anche perché egli stesso trovò testimoni che, tutti indistintamente, ricordavano Orlando indossare jeans e camicia rossa a quadri neri. Sempre gli stessi vestiti. Fino a sera inoltrata.

E perché poi lasciare scioccamente il proprio coltello, imbrattato di sangue della bambina, e con ben visibili le proprie impronte sul Terminillo quando, anche dalle indagini e dalle carte processuali, era ben evidente che Ninetta fosse stata uccisa in altro luogo e poi trasportata altrove per allestire quella macabra messinscena.

Quella terribile, mostruosa ferita avrebbe dovuta ben formare una vera e propria pozzanghera di sangue innocente, sotto quell’albero in cui era stata legata, vestita solo di un paio di slip rossi. Senza alcun vestito (maglietta verde e gonna a quadri scozzesi blu e grigi svaniti nel nulla), né mai erano stati parimenti ritrovati i calzini bianchi e le calzature che quel giorno indossava.

La ricordò di nuovo: i capelli biondi vagamente inumiditi dalla guazza umidiccia e serale che già si stava impadronendo di quel maledetto bosco, la testa reclinata leggermente in avanti quasi a vergognarsi di far vedere a tutti l’orribile taglio. Ed il viso poi, così sereno, gli occhi chiusi, come dormisse in quella innaturale posizione, scompostamente in ginocchio, posizione a cui era costretta da quella cordaccia legata sui polsi e poi annodata sul fusto dell’albero.

Nessuna violenza!” Sentenziò il medico legale e “se può consolare è morta praticamente subito, non ha sofferto granché!”  “Non ha sofferto granché?” Bonaloni sentì nuovamente viva la sua ribellione a quelle parole ed anche la scarsa eleganza mostrata a corollario della discussione avuta con “quello stronzo di dottore”, mandato infine cordialmente “a prendersela nel…”. Con la massima educazione, però, e riservando al destinatario un rispettoso “lei vada…”.

Lui, Bonaloni Ernesto, era ben certo che l’assassino fosse rimasto impunito e che Orlando, colpevole solo di trovarsi presente in tutti i momenti ed i luoghi sbagliati avesse finito per pagare caramente qualche sua involontaria sbadataggine. In particolare, quella di aver perso chissà come e dove il proprio coltello (disse di averlo smarrito qualche settimana prima) che, secondo il maresciallo, il vero colpevole aveva sottratto, probabilmente già con la sciagurata intenzione di massacrare quella bambina. Una tesi ardita? Forse. Ma, secondo il maresciallo, era la più logica anche se tutte le indagini svolte portarono ad escludere qualsiasi rancore tale verso la famiglia Rosati che da poter giustificare una così terribile premeditazione.

“Può significare una sola cosa – era la conclusione di Bonaloni – che quello è un assassino dei peggiori, capace di uccidere solo per il gusto di farlo. Se non lo fermeremo, saremo altrettanto responsabili!” Soprattutto si convinse che dovesse trattarsi di una persona al di sopra di ogni possibile sospetto e di un’intelligenza superiore alla media. Fredda e lucida, non avendo proprio lasciato la benché minima traccia. Insomma, a suo modo, il delitto più perfetto che potesse essere compiuto.

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Ora, il caso poteva essere dichiarato di nuovo aperto. Per la famiglia Rosati e per Orlando Parasassi. Soprattutto per Ninetta che avrebbe finalmente trovato giustizia terrena.

Solo che, prima di entrare nel portone d’ingresso della Questura di Rieti, Bonaloni Ernesto fu assalito da un dubbio, neanche poi così tanto sconclusionato: come giustificare il fatto che il suo indizio principale, “la collanina d’oro con il pendant a forma di tigre rossa”, gli fosse stato suggerito da una fonte onirica seppure senza dubbio informata dei fatti? Mancuso, con ogni probabilità, lo avrebbe sbranato, restando in tema di belve feroci. E, riconobbe altrettanto onestamente il maresciallo, non avrebbe avuto poi neanche così torto. Restò così bloccato sulla soglia, davvero indeciso sul da farsi.

Fu addirittura Shakespeare a giungergli in aiuto. “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni!” Bonaloni sorrise per quella citazione ripescata chissà dove nei suoi ricordi di studente ginnasiale, appassionato del bardo inglese, ed iniziò subito a gridare, con voce sorprendentemente tenorile, i nomi di Rinaldi e De Santis, i suoi più stretti collaboratori che, seppure a volte un po’ duretti di comprendonio, erano pur sempre dei bravi poliziotti. Soprattutto fidati ed incapaci di delazioni: sarebbe stata un’indagine riservata e ristretta. Un triumvirato investigativo della cui esistenza sapevano solo i tre che ne avrebbero fatto parte. Mancuso? Che fosse andato al diavolo!

Solo il Presidente Giuseppe Saragat, sorridendo pacioso dal suo ritratto posto sulla parete dietro la scrivania di Bonaloni Ernesto, fu l’unico testimone diretto della riunione carbonare convocata dal triumiviro capo, cioè il maresciallo in persona. Alla guardia scelta Rinaldi fu dato il compito di scartabellare il gigantesco faldone sul delitto Rosati, che aveva trovato rifugio nell’archivio della Questura di Rieti. Il compito: verificare se da qualche parte spuntasse quella collanina misteriosa, o se ne facesse cenno. De Santis, altra guardia scelta in odore di promozione al grado superiore di appuntato, avrebbe dovuto ascoltare (non interrogare, Bonaloni gli si raccomandò) un po’ tutti, dai genitori agli altri testimoni, compresi gli allora compagni di scuola di Ninetta e tutti coloro che gli erano stati vicini, soprattutto nel giorno del suo compleanno. L’obiettivo? Manco a dirlo: verificare sempre se qualcuno avesse mai effettivamente visto quel gioiello indossato dalla bambina.

Furono necessari due giorni esatti, notti attive comprese, per il primo responso. Relatore la guardia scelta Rinaldi, davvero stremato per la sua ininterrotta lettura di quella sterminata foresta di documenti. “Nulla, marescià! Nulla che possa anche minimamente somigliare al gioiello di cui ci ha parlato…Catenine sì…ma solo una d’oro e con la lettera N come pendant…poi due braccialetti…qualche libro…alcuni vestiti…Questi i regali che erano stati destinati a Ninetta…” Si commosse. “E che…e che… quella bambina non potrà mai godersi…” concluse con voce rotta da una sincera partecipazione emotiva. Non mise, soprattutto, mai in dubbio che il “suggerimento” avuto dal suo superiore fosse di origine sconclusionata. Al maresciallo tanto bastò per ringraziarlo di vero cuore. “Lo prenderemo!  Stai sicuro! Prenderemo quel bastardo!”   

Niente dalle carte, nessun riscontro utile anche dalle persone. De Santis, di solito abbastanza riflessivo, se non lentacchione, fu sorprendentemente capace di riascoltare ben trentatré persone nel giro di neanche quattro giorni. “Nessuno ha mai visto né sentito parlare di quella tigre rossa!” Fu il suo responso estremamente sintetico e chiaro. “Non ci arrenderemo!” Lo consolò Bonaloni notando il suo reale dispiacere, in verità incoraggiando anche sé stesso visto che non sapeva davvero da dove poter ricominciare.

E siccome le sventure non arrivano mai sole, ecco giungerne una davvero bella grossa. Seppure condotta con discrezione, quell’indagine parallela aveva lasciato qualche piccola scia. Troppe le persone (esterne) che vi erano state coinvolte. In particolare, due professionisti con i quali, nel corso della sua ormai consolidata presenza reatina, il capitano Mancuso intratteneva da qualche tempo rapporti di cordialità, se non di vera e propria amicizia. Quindi, l’ufficiale di pubblica sicurezza era ormai a conoscenza della ricerca bonaloniana. Facile prevedere tuoni e fulmini di origine sicula nel corso dell’incontro che da lì a poco il maresciallo avrebbe avuto con il suo diretto superiore tre stellato.

Il silenzio che avvolgeva la stanza intera del capitano Mancuso non lasciava presagire nulla di buono. Anche in questo caso, testimone silenzioso sarebbe risultato il buon presidente Saragat. Oddio, guardando meglio, poco più in alto, sopra l’autorevole ritratto, dominava tutto un crocifisso artistico e di pregevole fattura. Mancuso si accorse dove lo sguardo di Bonaloni si fosse adagiato. “Farebbe davvero bene a chiedere la sua protezione!” Esordì sorprendendolo. Poi lo sorprese ancora di più. “Non voglio neanche sapere la fonte delle sue informazioni privilegiate (Bonaloni tirò un gran sospiro di sollievo) e non voglio sapere neanche se ha trovato qualche riscontro!”.

Osservò, quindi, il Gesù crocifisso, voltandosi di spalle a Bonaloni. “Guardi, io non sono un credente. Ma se ha bisogno della sua benedizione, gliela chieda pure. Gli chieda un miracolo.. per me sarebbe solo un sogno realizzato (il maresciallo rabbrividì, temendo che l’ufficiale sapesse delle sue visioni notturne) se si riuscisse ad incastrare il vero assassino di quella ragazzina, come lei sostiene!”. Il maresciallo fece per ringraziarlo. Qui il canovaccio che regolava tutti i loro incontri non fu modificato.  Bonaloni non aveva semplicemente diritto alla parola. Quindi, non poté parlare. “Ma le voglio regalare un proverbio siciliano (anche questo in piena tradizione dei loro passati colloqui): “A pignata addata non vigghi mai! e le fornisco anche la traduzione: La pentola guardata non bolle mai!” che, interpretato alla lettera da Bonaloni, voleva semplicemente dire di non fermarsi nelle indagini che stava svolgendo. Il maresciallo gli sorrise, batté i tacchi e, almeno stavolta (glielo doveva) non lo mandò al proprio interno al diavolo.

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Cinque mesi dopo

Non era accaduto più nulla. Solo un inverno particolarmente rigido, che a marzo ormai inoltrato faceva ancora sentire sulle ossa dei reatini gli ultimi colpi sferrati dalla sua coda gelida.

Anche quella mattina in cui, in pieno e coscienzioso servizio, il maresciallo stava percorrendo la via intitolata all’eroe dei due mondi, la più che bassa temperatura si faceva sentire, anzi che no. Solo allora, il sottufficiale di polizia ripensò a Ninetta, a quel corpicino abbandonato in quel bosco dove la notte si faceva sentire prima che altrove. Sì, d’accordo, era già morta quando vi fu trasportata, ma Bonaloni non poteva proprio scacciare l’idea di proteggerla almeno dal freddo, magari con quella copertina calda in cachemire che una sua cugina le aveva regalato per il trentacinquesimo compleanno e che lui, come spesso si fa con le cose belle da sciupare il meno possibile, aveva semplicemente lasciato sigillata all’interno dell’armadione di casa. Nella sola disponibilità del tempo che l’avrebbe, comunque, consumata a proprio piacimento.

Arrivò in Questura. Giunse nel proprio ufficio. Riscaldato? Neanche per idea. Quel maledetto usciere si era nuovamente dimenticato di appicciare (accendere) la stufetta a gas che l’Amministrazione forniva ai propri dipendenti di Pubblica Sicurezza. “Il regolamento, marescià! Il regolamento prevede che si può accendere solo dalle 9.00 in poi a partire dal 20 marzo! Ed oggi se non sbaglio, è il 21 marzo!” Marinetti, che a cinquanta anni suonati era ancora guardia semplice (e Bonaloni ne comprendeva perfettamente il motivo), fu a suo modo categorico, aggiungendo un “Lo sa che oggi è entrata la Primavera!” che suonò per il maresciallo come una poco leggiadra presa in giro meritevole, di contrasto, della spedizione a quel paese dell’incauto usciere.

Marinetti non ne rimase colpito. Figurarsi, se poteva colare a picco, affondato da un semplice “vaffa”. Ne faceva abbondante collezione quotidiana, compresi quelli in siciliano stretto che il capitano Mancuso gli spediva esattamente due volte al dì: uno preventivo, all’arrivo in Questura dell’ufficiale, l’altro sentitamente motivato all’uscita, quando Marinetti risultava reo di innumerevoli puttanate commesse, o di successiva scoperta. Bonaloni, però, mai era riuscito a fare “doppietta” in un solo giorno. Provvide (di cuore) da lì a poco, esattamente alle 10.15 quando la guardia scordarella si ricordò improvvisamente di due telefonate destinate al sottufficiale, e mai comunicategli.  “E quando pensavi di dirmelo?” Lo interrogò severamente il maresciallo. “Ora!” fu la risposta candida di Marinetti. A quel punto il vaffa-bis scattò doveroso.

Che lo cercasse il notaio Ferretti, non gli parve però una gran bella notizia. Ancora troppo fresco e doloroso il ricordo dell’eredità paterna ricevuta. Non che il dottor Ferretti ne avesse una responsabilità precisa, avendo solo svolto il proprio dovere: ma era il suo semplice nome a fargli srotolare all’interno della sua testa e del suo cuore i periodi della sua vita da figlio, tutti belli!, almeno fino a quel giorno che…”Lasciamo perdere! Ora gli telefono e vediamo cosa vuole! Spero solo che non vi sia qualche appendice…Mi è bastato quel che ho già ricevuto!”. Bonaloni strinse i pugni. Il suo dolore era ancora troppo fresco, benché fosse passato un anno abbondante dalla scomparsa del suo genitore. Sperò, quindi, ardentemente, che il dottor Ferretti dovesse comunicarsi notizie del tutto diverse.

In effetti di ben altra cosa si trattava. Del tutto imprevedibile. Sapeva che qualche giorno prima l’intera città era stata in lutto per la scomparsa del professore Luigi Bernabei, illustre docente, studioso, insegnante, etc etc., ma mai Bonaloni Ernesto avrebbe potuto neanche lontanamente immaginare di finire anch’egli tra i beneficiari del suo testamento.

La disposizione del defunto professore riguardante il maresciallo Ernesto risultò di estrema brevità. “Io Luigi Bernabei, nel pieno etc etc  conferisco incarico al notaio etc etc – la lettura di Ferretti si faceva sempre più veloce – di recapitare al signor Bonaloni Ernesto questa lettera chiusa e sigillata in mia presenza…in data etc, etc, etc”.  Bonaloni avrebbe voluto spontaneamente chiedere come dovesse avvenire quella consegna.  Non servì. La modalità fu chiarita nell’ultimo scorcio della disposizione testamentaria. “Oggi 21 marzo 1969 il suddetto beneficiario la potrà ritirare…” Il notaio tentennò vistosamente, prima di procedere tutto d’un fiato: “La potrà ritirare sopra la lapide della mia tomba al cimitero di Rieti!” 

“Sopra la tomba?” “Sì, maresciallo e questa mattina ho personalmente provveduto all’esecuzione testamentaria: dall’entrata, terzo vialetto a destra, quinta tomba! Non può sbagliare, è una tomba antica, appartenente alla famiglia Bernabei! Direi anche una vera opera d’arte…E ci vada il più presto possibile…sa, la potrebbe prendere qualcuno! La lettera intendo!” “Sì, i fantasmi!” Avrebbe voluto replicare Bonaloni, che si limitò, invece, ad un semplice “arrivederci!” che suonò quanto più falso si potesse immaginare: per lui quel notaio Ferretti  era una sventura, e non avrebbe voluto neanche più sentirlo nominare in futuro, prossimo o remoto che fosse.

Quella mattina, Cimitero Monumentale di Rieti

Al suo arrivo, la frenata della Pantera della Polizia provocò quattro sgommate da paura; non causate da una particolare euforia del conducente ma dall’attrito delle ruote con il fitto brecciolino bianco del piazzale antistante l’ingresso al Cimitero, che faceva assomigliare quello spazio ad una specie di saliera. Bonaloni non ebbe neanche il tempo di scendere dall’autovettura che una figurina ancora indistinta gli piombò sopra da chissà dove. Era “ Manonera”, il custode del Cimitero, così spaventato da fare davvero paura.

Già era brutto di natura. Figurarsi in quello stato di agitazione che al maresciallo parve davvero estrema. I capelli ancora più spariati  (radi/spettinati) del solito ed il bianco cadaverico lo facevano somigliare al Nosferatu del cinema muto. Così, per precauzione, altrettanto estrema, Bonaloni si tuffò all’indietro affidandosi alla protezione della Pantera. Solo per sentirsi un po’ più pronto a sfidare anche un eventuale vampiro. Si rasserenò del tutto quando il custode cimiteriale alzò la mano destra, inguantata di nero (da qui il soprannome che lo avrebbe accompagnato per l’eternità) in segno di pace.

Il maresciallo scese di nuovo dalla vettura. Avrebbe voluto domandargli perché portasse sempre un solo guanto. “Per risparmio. Visto che sono dritto (destro), perché utilizzarli tutti e due? Se fa freddo? Mi metto la mancina in saccoccia (tasca) e tengo riscaldata quella forte con cui faccio davvero tutto!” sarebbe stata la risposta. Gli chiese, invece, esclusivamente il motivo di quella paura ancora così evidente.

“Ci sta’ uno spirito, marescià! E t’ha mandato una lettera…ieri sera non ce stava sulla tomba…Ed ora c’è! Secondo te… se non è stato lo spirito fresco fresco di Bernabei, chi ce l’ha potuta mette’? Quello è sempre stato stranu (strano)!”.

Bonaloni si limitò a confortarlo. Sarebbe stato troppo lungo e complesso, soprattutto per Manonera, spiegare che si trattava di una semplice, per quanto bizzarra, esecuzione testamentaria. Piuttosto, era rimasto colpito dalla definizione di “stranu” affibbiata dal custode al professore appena scomparso. “Se dico che era stranu, significa che era stranu. Pensa tu, che una volta aveva voluto sapere dove fossero sepolti gli assassini di Rieti? E che ne saccio io? Ne ‘sta città non succede mai niente!!!”

Bonaloni, pur discordando da quella ultima affermazione, lo guardò rassicurante. “Tranquillo!” e si diresse con passo spedito verso il luogo di quell’improbabile appuntamento.

La tomba monumentale dei Bernabei! Gli era finalmente davanti. Una grande lapide quadrata, in lieve pendio verso i visitatori, ne portava sopra inciso quel cognome. O almeno, lo si poteva intuire dalle poche lettere che la sporcizia, il tempo e la incuria evidente, consentivano di vedere con relativa chiarezza. Tutto intorno erbacce, in gran parte rinsecchite dal freddo e, nella parte più in alto, verso la siepe che delimitava l’altro vialetto, un po’ di terra smossa, come se qualche randagio o animale sotterraneo vi si divertisse a scavare e poi  a rinterrare quel minuscolo spazio di utilizzo.

A destra un cippo funerario in marmo, sbrecciato al suo apice ed anch’esso ormai liso e consumato,  così come le foto che vi risalivano dal basso verso l’alto, forse gli avi più illustri della famiglia stessa. Il maresciallo, dopo aver tenuto ben distante Manonera vietandogli severamente di accompagnarlo fin lì, si assicurò che anche la lettera a lui destinata fosse rimasta intatta sul bordo superiore della lapide, con la B in rilievo di quel cognome ad impedirne qualsiasi eventuale scivolamento verso il basso. Fece per prenderla, ma rimase colpito dall’edicola in ferro che riempiva praticamente tutto lo spazio a sinistra della tomba: una sorta di tempietto che proteggeva al proprio interno una luce votiva, pronta ad innervosirsi ogni volta che Bonaloni Ernesto la guardasse. Gli sembrò una stranezza, quel tempietto, soprattutto per la cura riservatagli rispetto al resto, dove neanche un misero fiore o qualcos’altro testimoniava una parvenza di memoria viva per quelle persone.

“Mah!” borbottò Bonaloni, facendo ben attenzione a non rovinare in qualche modo la ricevuta che era allegata sul dorso della lettera, e che avrebbe dovuto restituire, firmata “per preso possesso”, al notaio Ferretti, come da accordo telefonico. Finalmente era giunto il momento di aprire la busta a lui indirizzata. Ne strappò prima con delicatezza un piccolo lembo angolare: voleva essere certo di non danneggiare la benché minima porzione di lettera e dello scritto.

Ne trasse un solo foglio, scritto abbastanza fitto con una penna stilografica. Iniziò a leggere, notando che non vi fosse alcun cenno di saluto o di confidenza nei suoi confronti. Insomma, niente “caro” o “gentile”. Si entrava subito nel vivo e fu un ingresso davvero complicato per Bonaloni. “Sono la Tigre Ismailita! Il Re dei Nizariti! Ho ucciso nell’ombra e nell’ombra, ora e per sempre, ritorno! In eterno, dove il giorno è notte e la notte è sempre nascosta dal buio più profondo!” 

Quindi uno spazio abbastanza ampio, prima che lo scritto riprendesse, come se il professore avesse deliberatamente richiesto al suo speciale lettore una prima riflessione su quanto aveva appena letto. Bonaloni non si sottrasse. Non che avesse capito granché su qualche specifico riferimento, se non “forse che il professore era un po’ matto”. Non gli era però certamente sfuggito il riferimento alla “tigre” ed “all’aver ucciso”. Solo riferimenti simbolici, da intellettuale raffinato come Bernabei in effetti era, o qualcosa di più sinistro? Proseguì nella lettura ed avvertì un primo insistente brivido.

“Non mi è mai piaciuto ricordare. I ricordi sono dei deboli!. Eppure qualche tempo fa, diciamo quasi cinque anni fa, ero bello, alto, magro, accompagnato dal fascino dello studioso, che non mi premuravo certo di nascondere. Odoravo di libri e di cultura. E così quella bambina, assetata di conoscenza. Capì subito che aveva un debole per me, o meglio, per la mia grandiosa cultura. Solo che io volevo soltanto e semplicemente ucciderla. Fin da subito. Sentivo di dover uccidere quella creatura innocente. Non mi interessava altro. Avrei solo dovuto attendere il momento opportuno, che tutto fosse pronto e soprattutto perfetto”.  Bonaloni rimase impietrito. Sembrava essere divenuto un tutt’uno con quella pesante lapide di marmo. Trovò la forza di continuare nella lettura.

Immaginai mille e mille modi. Nessuno mi avrebbe garantito l’impunità! Fu solo quando trovai dentro il mio bagno il coltello dimenticato da quello stupido di idraulico, che realizzai come il gran momento stesse per giungere. Lo trattai, quel coltello, come una reliquia! Lo conservai con cura, neanche sfiorandone il manico. Lo portai verso il mio petto, verso il mio cuore afferrandolo con attenzione direttamente dalla lama per riporlo in un fazzoletto bianco, fino a quando non mi fosse effettivamente servito”. Il maresciallo avrebbe voluto gridare “Bastardo! Maledetto!” Lo fece dal profondo del suo cuore e Bernabei sembrò anche ascoltarlo.

Gridi pure il suo sdegno, ne avrò solo gioia! Ma torniamo al momento, che giunse  nel suo giorno più bello, il giorno che ricordava la purezza della sua nascita. Ed In quel giorno doveva morire! Ed in effetti morì, attratta nella mia casa da un regalo che le avevo promesso la settimana prima, dietro la sua rassicurazione di non riferire niente ad alcuno. Sapevo di potermi fidare di quella ragazzina così innocente. Appena entrata in casa, le mostrai la catenina e le chiesi di indossarla. Sorrise contenta. Le tagliai la gola così, senza dirle una parola! (a Bonaloni venne un conato di vomito al solo immaginare la scena e quella crudeltà). Vidi il primo sangue sgorgare e poi altro, come fosse un piccolo torrente di rossa meraviglia che andasse via, come la sua vita. Ero un assassino!” Il maresciallo ebbe l’istinto di fare violenza su quella lettera, tanta era la rabbia che lo aveva invaso. Voleva appallottolarla e scagliarla chissà dove. Si fermò appena in tempo. Costituiva una prova e dopo tanto tempo, anche se nella maniera più incredibile e dolorosa, stava per mantenere la sua parola di “acciuffare” l’assassino di Ninetta.  

“Ma se crede che io sia pentito, si sbaglia di grosso. Il vero assassino non si pente mai. E se pensa anche che la mia successiva malattia sia stato un castigo di un Dio che non riconosco, si sbaglia ancora di più. Sono solo un po’ dispiaciuto per non aver potuto uccidere ancora. E non ho niente di cui farmi perdonare, né vorrei mai essere perdonato”.

Mancavano un paio di righe, poco più, a concludere quella dannatissima lettera. Il maresciallo Bonaloni si guardò però bene, prima di leggerle, di maledire quell’uomo, certo che “quello” ne avrebbe trovato un perverso godimento. “Ho saputo che va cercando il mio regalo, la collanina con la tigre rossa! Non la troverà mai. Brucerà anch’essa insieme a me!”

Stavolta il sottufficiale non poté trattenersi. “Brutto bastardo, figlio di puttana! Anche i funerali con tutti gli onori ti hanno fatto! Ma ti getterò nel disprezzo più totale…e che tu possa davvero bruciare nel più profondo degli inferni!!!” Ebbe un sussulto. “Bruciare?” Rimase a riflettere, a guardarsi attorno e di nuovo a riflettere. “Forse non sei così intelligente come credi, professore!” e sparò un grido “MANONERA!!!” non proprio appropriato, per tono ed ineleganza, in un luogo di riflessione e di silenzio come un cimitero.

Anche stavolta il custode gli piombò sopra senza che Bonaloni se ne accorgesse. Esattamente alle spalle mentre il maresciallo si attendeva che gli giungesse di fronte, considerato che lo aveva lasciato all’ingresso del cimitero e che da lì gli aveva ordinato di non muoversi. Passò sopra alla disubbidienza ormai consumata.  “Senti un po’, questa tomba, tu l’hai mai curata? Qualcuno ti ha mai detto di occupartene!” Manonera guardò lo stato penoso in cui era ridotta e quasi si vergognava di rispondere, tanto era evidente l’incuria.

Bonaloni insistette. “Non mi riferisco alla lapide, a quel cippo o alle erbacce. Non me ne frega assolutamente nulla! Solo alla luce!!!” il custode sorprendentemente sorrise. Riteneva che avesse fatto un buon lavoro e quindi “sì, fu il professore stesso a darmi ventimila lire per tenere quel fuoco acceso in eterno!” Allora non è energia elettrica quella che la rifornisce!” Lo incalzò il maresciallo. “Ma quale energia elettrica! E’ una lampada ad olio…ed io devo solo fare attenzione che non si spenga mai”.

Manonera pensava di ricevere almeno un abbozzo di elogio per la sua bravura. Ricevette, invece, una richiesta perlomeno singolare. “Dammi quel tuo guanto!” Gli intimò bruscamente il maresciallo. “Dammi quel tuo guanto, sennò ti porto dentro per favoreggiamento!” Al custode quell’ordine, tale era, sembrò un tantino “stranu”. Ma obbedì. La sola prospettiva di finire in manette, anche se non aveva ben capito perché, lo terrorizzò all’istante.

Gli calzava un po’ stretto, ma era comunque adatto all’uso che il maresciallo intendeva fare di quel guanto. Aprì senza alcun riguardo quel tempietto e scostò con rabbia quella stramaledetta luce votiva, che rispose con un guizzo improvviso, quasi volesse morderlo. O almeno così gli parve. Riuscì solo a bruciacchiargli parte della lana del guanto, ma non ad impedirgli di alzare la base su cui poggiava. In questo piccolo spazio  Bonaloni pescò la catenina con il pendant a tigre rossa! Quindi, restituì il guanto semi distrutto a Manonera. “Vabbè – promise non appena lo vide così turbato – domani te ne regalerò un paio nuovi di zecca!.

Quindi, lanciò un’ ultima occhiata sulla lapide. “Che la terra non ti sia lieve, professore!”.             

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