“L’uomo che lancia una bomba è un artista perché preferisce un grande momento a tutto”     

                                                                                                                  G.K. Chesterton     

                                                                         

Rieti, 24 dicembre 1969

Lunga e diritta correva la strada. Vi saettava sopra una Pantera, ne divorava ogni metro di asfalto ed ogni altra vettura che si frapponessero dinanzi al suo cammino imperioso. Ogni sorpasso una sculettata. Da far schiattare di rabbia la più sensuale femmina del mondo. Una movenza bella, armoniosa, ritmata. Così aerodinamica da fargli recuperare il giusto assetto, per lanciarsi rapidamente verso il traguardo. Senza però reale urgenza di raggiungerlo visto che tutto si era già ampiamente consumato: una locomotiva immobile lungo un binario morto della stazione di Rieti.

Sinceramente, Bonaloni Ernesto, in pieno e coscienzioso servizio pure in quel giorno di vigilia natalizia dell’anno del Signore 1969, non è che avesse capito granché dell’accaduto. Solo che vi era stato uno spostamento misterioso, di un centinaio di metri, come se “la macchina a vapore fosse stata cosa viva” e, senza essere animata da mano umana, avesse voluto farsi un nostalgico giretto. Nessun ferito, nessun danno. O, almeno, nessuna segnalazione in tal senso era giunta al centralino della Questura.

Piuttosto, in quel preciso istante, per il maresciallo la priorità era ben diversa:  desiderava solamente di arrivare sano e salvo a festeggiare l’indomani, e per il suo trentasettesimo anno consecutivo, la Santa Natività e, probabilmente, insieme a lui la stessa cosa auspicavano anche gli altri due passeggeri di quella Volante di Pubblica Sicurezza ancora in piena e folle corsa. L’autista, no. Che andasse benedettamente all’inferno, se proprio lo avesse voluto! Ma da solo. Senza trascinarvi altri poveri Cristi, comprendendo in tale salvifica cerchia eventuali ignari automobilisti o sventurati pedoni che potessero rimanere coinvolti in un incidente che, a quella andatura ed in quel tratto urbano, pareva lì li per capitare.

Stazione ferroviaria di Rieti, ore 9.01

Come ormai consuetudine, la Pantera lasciò una lunga scia di frenata al suolo. Dritta per dritta. Stranamente a Bonaloni, che pure aveva una paura fottuta di volare, sembrò che quella vettura stesse accingendosi a decollare tanto forte era stato lo stridio delle gomme sull’asfalto. Solo una brutta sensazione. Ora era finalmente ferma, proprio al centro del piazzale. Né il maresciallo né gli altri occupanti, eccezion fatta per il conducente, sapevano però spiegarsi il perché di quello stop così distante dall’ingresso della stazione. Avrebbero voluto chiederglielo. Vi rinunciarono, anche se il sottufficiale di polizia indirizzò un eloquente sguardo testacazzeggiante rivolto a Duilio Proietti, l’autista senza tema e senza paura, che, proprio per dare maggiore consistenza alla sua esuberanza (non sempre gradita e mai richiesta), fu anche il primo a lanciarsi verso l’obiettivo ferroviario.

L’intero quartetto rimase però incantato, e adeguatamente paralizzato, da una visione femminile non proprio attesa. Non che presso le stazioni FFSS fosse difficile imbattersi in viaggiatori donna. Solo che non si aspettavano davvero una bella, bellissima signora in divisa color carta da zucchero; incravatta di tutto punto, con una camicia bianchissima che rifletteva anch’essa di candida meraviglia sotto i raggi dell’ancora freddo sole dicembrino. Sulla testa un cappello calcato alla perfezione, da cui fuoriuscivano ampie ondate di capelli nerissimi impazienti di trasformarsi in mareggiata non appena fossero stati liberati. I suoi occhi verde smeraldo si conficcarono diritti in quelli del maresciallo cogliendone in pieno stupore ed ammirazione.

Bonaloni non riusciva a proferire parola. E quando si sentì finalmente pronto ad abbozzare almeno un “Buongiorno” fu anticipato dalla donna. “Piacere, sono il nuovo capostazione Elena Napoli! E se pensa che il mio cognome sia di origine ebraica perché contiene il nome di una città (il maresciallo non vi aveva però minimamente fatto caso), ha pienamente ragione. Non che sia sempre così, a differenza di quanti quasi tutti credono, ma nel mio caso lo è. E ne sono fierissima!” Il poliziotto riuscì solo ad emettere un indistinto suono di assenso rispetto a quelle parole pronunciate con eloquente fierezza.

“Mio padre era macchinista ferroviere – proseguì la capostazione-  un verto artista delle locomotive. Ne possedeva l’anima ed il corpo. Ed io fin da bambina ne seguì il percorso fino a quel maledetto 21 novembre del 1943 quando fu “incaricato”, ma direi costretto, di condurre un treno speciale fino a Theresienstadt, il falso campo di lavoro modello dei nazisti. E così parve anche a mio padre, la cui cartolina inviatami da quel luogo di morte conservo con la stessa gelosia ed amore di quando la ricevetti. In quelle poche righe mi diceva di esser ben trattato come tutti i passeggeri di quel convoglio. Poi seppi che era stato giustiziato il giorno successivo a quella spedizione…Giustiziato, che strana parola per una persona innocente… e per milioni di innocenti!”

Bonaloni riuscì ad abbozzare un “Mi dispiace!” che non aveva nulla di formale. La donna apprezzò ed aggiunse che l’essere riuscita ad essere divenuta una delle pochissime donne in servizio presso le ferrovie italiane, e l’unica ad aver conquistato il ruolo di capostazione, era una sorta di missione in memoria del padre. Quindi si scusò. “Mi dispiace di avervi fatto perdere del tempo prezioso, ma, credetemi, sentivo un forte bisogno di anticipare la vostra curiosità e – si fermò un attimo, commuovendosi – riuscire a parlare di un argomento come l’olocausto di cui ancora in Italia si stenta a parlare con la necessaria franchezza. Ma ora seguitemi che vi faccio vedere la stranezza!”

All’ingresso in stazione, Bonaloni e compagnia non riuscirono a notare alcuna cosa che fosse davvero fuori posto, a parte il forte odore di nafta combusta che sembrava direttamente salire dalle traversine ferroviarie fin dentro il loro olfatto. Una littorina stava partendo in direzione L’Aquila in perfetto orario, quindi tre/quattro viaggiatori un po’ annoiati in attesa di imbarcarsi verso Terni alla corsa immediatamente successiva. Infine, quella vecchia locomotiva a vapore ferma sui binari più distanti e non operativi dell’intera struttura. La capostazione la indicò con chiarezza. “Sapete dirmi come ha fatto a spostarsi fin lì, se ieri sera, e posso giurarlo, si trovava su quell’ultima rotaia che potete vedere di fronte a voi?”  

Fu solo l’inizio di un ribaltamento di ruoli che vedeva Bonaloni nelle vesti di suggeritore di plausibili spiegazioni più o meno tecniche e la donna pronta ogni volta a controbattere dimostrando l’impossibilità di ciascuna delle ipotesi avanzate dal maresciallo. “Non è così semplice guidare una macchina di quel tipo – precisò la capostazione – e qui l’unica in grado di farlo sono io!” Subito dopo, fece notare una serie di binari che giungevano dalla zona di campagna chiamata Porrara,  e che si immettevano come minuscoli affluenti sulle linee principali. Al maresciallo sembrarono un groviglio senza senso.

“E invece è un sistema perfetto di rotaie! Collegano la stazione allo Zuccherificio ed alla Viscosa. Vi arriva la merce su dei carrelli speciali che vengono poi attaccati alla locomotiva e condotti fin lì (indicò un punto più isolato della struttura) per le operazioni di carico sui treno merce”. Quindi, aggiunse una sorta di rimprovero per l’intera città. “Voi reatini siete abituati a dare poca considerazione a tutto ma sarebbe importante che sapeste che questa stazione è uno dei principali snodi di servizio merci del Centro Italia!” Poi riprese a parlare dell’”incidente”.

“Ma stanotte non vi è stata alcuna operazione per cui resta il mistero di chi l’abbia potuta mettere in funzione e guidare! Mi creda, non è così facile come mettere in moto un’autovettura!” Il maresciallo rimase di stucco. Non è che fosse un esperto di locomotive ma gli sembrò davvero improbabile che a Rieti, città dove non accadeva mai nulla, vi fosse qualcuno anche in grado di pensare una cosa simile. Addirittura di notte, poi.  Davvero impossibile. Ed allora?

“Allora? Allora mi sono convinta che qualcuno voleva rubarla, quella locomotiva! Voleva portarsela via!” Fu l’ipotesi più probabile avanzata dal capostazione. La replica del maresciallo fu spontanea e scontata. “E cosa mai poteva farci con un vecchio ciuf ciuf? Dove mai voleva portarlo? E perché, visto che era anche riuscito a partire, l’ha poi abbandonato laggiù?” “A questa domanda posso risponderle subito: lo scambio!” “Lo scambiò?” “Sì, lo scambio che ha indirizzato la locomotiva esclusivamente su quel binario inutilizzato dove la vede adesso!”

Bonaloni era così convinto che si trattasse di un avanzato sistema di sicurezza da fare i complimenti alla donna. Fu bruscamente interrotto. “Nessun colpo di genio! Tantomeno da parte mia. Semplicemente quello scambio non funzionava! E come lei sa – concluse con amarezza la donna – in Italia le cose che non funzionano sono alla fine quelle più efficienti!”   Bonaloni non poté che concordare, almeno per il caso in questione.   

Restarono immobili. L’uno contro l’altra a pensare. Almeno fio a quando Proietti, l’autista coraggioso, non trovò l’ardire, prima a stento controllato, di avvisare il maresciallo che era atteso in Comune per una riunione della massima urgenza. “Il capitano Mancuso è già nella stanza del Sindaco. Mi ha detto che stanno per arrivare anche Prefetto e Questore. Manca solo lei…” Proietti non si fermò lì. Tutt’altro che insensibile al fascino femminile, iniziò a prodigarsi in una serie di sgangherati apprezzamenti che la capostazione mostrava di ricevere con sempre crescente disappunto. Fino a quando arrivò a complimentarsi anche per il servizio di ambulanza che secondo Proietti doveva costituire il fiore all’occhiello dell’efficienza di quella stazione condotta al femminile.

“Ma quale ambulanza? Ma cosa sta dicendo?” Lo stupore della donna era sincero, mentre il gesticolare nervoso delle sue mani mostrava chiaramente come il suo livello di sopportazione si fosse ormai esaurito. Lo stesso Bonaloni si sentì in imbarazzo ordinandogli di smetterla subito e di chiedere scusa alla signora. Proietti iniziò a balbettare. “Ma…ma…co…co cosa ho detto?  Co..cosa ho fatto…ci sono tutte quelle A per terra…che ho pensato…”   “Ma quali A?” Domandò Bonaloni precedendo per sorpresa e prontezza la padrona di casa. “Ma quelle che sono lì a sinistra sulla pavimentazione…proprio all’ingresso della sala d’attesa!”

Non riuscì neanche a finire la frase che i suoi interlocutori erano spariti dinanzi ai propri occhi. Il tempo di girarsi su sé stesso e li ritrovò a qualche metro di distanza proprio nel luogo dove aveva avvistato le misteriose A. Ben allungate e racchiuse in un cerchio, erano state disegnate una dopo l’altra con evidente cura e perizia. Tre in maniera completa, l’ultima mancava invece della vocale ed era anche ben chiaro come lo stesso tondo risultasse imperfetto rispetto agli altri. Come se qualcosa o qualcuno avesse disturbato il misterioso autore.

“Ma è il simbolo dell’anarchia?” Esclamò Bonaloni a voce alta, interrotto ancora da Proietti che gli ricordava l’appuntamento in Comune. “Hanno di nuovo chiamato! Stanno aspettando solo lei!” Al maresciallo non restò altro da fare che lasciare incompiuto il suo quadro investigativo. Incaricò De Santis e Rinaldi, rimasti a far niente all’interno della Pantera, di “dare qualche altra occhiata in giro…di sentire possibili testimoni…qualcuno che qualcosa potesse aver visto…insomma qualsiasi cosa che potesse dare una spiegazione logica al mistero della stazione!”

Poi si rivolse a Proietti. “Se provi a superare i trenta orari ti sparo!” In realtà, non gli avrebbe mai sparato. O ancor meglio, non gli avrebbe mai potuto sparare considerato che, come da abitudine, la sua pistola d’ordinanza ed il tesserino di riconoscimento giacevano, più o meno da sempre, all’interno del cassetto centrale della sua scrivania. E già che si ricordasse che lì erano conservati, non era da dare affatto per scontato.

Comune di Rieti, ore 10.30        

Della pistola non sembrava, quindi, averne proprio bisogno. Del tesserino sì, soprattutto per via di uno zelante usciere del Comune che proseguiva nel suo (giusto) intento di sbarrargli il passo verso il piano superiore, almeno fino a quando non gli avesse mostrato un documento che ne accertasse la sua appartenenza al Corpo di Pubblica Sicurezza. Fu tale scrupolosità, che mai aveva notato negli uffici pubblici ed in particolare nella sede municipale, a convincerlo che qualcosa di grave fosse davvero accaduto o stesse per accadere. In ogni caso, fu necessario un intervento dall’alto, nel senso che arrivò dai piani superiori un terribile grido di lasciapassare da parte del capitano Mancuso, per sbrogliare finalmente la situazione di stallo.

“Si deve far sempre riconoscere! Ha un ritardo pauroso ed in più si mette a trastullarsi anche con i suoi documenti!” Fu il benvenuto, ben poco caloroso, del tre stellato. Bonaloni ci era anche abituato ed era sempre stato pronto a ribattere punto su punto. Non in quella in quella occasione specifica; anzi si vergognò profondamente delle sue mancanze che riteneva tali e, di conseguenza, degne di censura da parte del superiore. Scattò sull’attenti, senza ovviamente alcuna intenzione di prendere in giro Mancuso, e si mise immediatamente ai suoi ordini con un perentorio “Comandi!”.

“Lasci perdere le formalità! Non ce ne è bisogno, vista la gravità della situazione!” Lo avvisò subito il capitano che gli ricordò immediatamente una tristissima, traumatica data per l’intera nazione:  “Non gli sfuggirà cosa sia accaduto lo scorso 12 dicembre (1969), Milano, la strage di Piazza Fontana. Tutti quei morti innocenti…” Non ebbe bisogno di aggiungere altro. Bonaloni si limitò ad un forte, quasi rabbioso, cenno di assenso con il proprio capo, anche se non comprendeva bene cosa c’entrasse direttamente quella tragedia con la città di Rieti.

Sentì comunque una reale sensazione di fastidio impadronirsi del suo corpo. Da qualche tempo aveva imparato a suddividere il dolore paragonando quello collettivo, come nel  caso dello shock causato da Piazza Fontana, ad un alambicco che intorcinandosi, come da sua natura e forma, riuscisse poi lentamente nel tempo a liberare verso l’alto il proprio contenuto per trasformarlo in memoria unanime e condivisa. Non così per il dolore individuale e più strettamente personale: sarebbe sempre tornato da solo, come il primo giorno, sempre pronto a tagliarti in due, a ricomparire puntualmente con la stessa intensità e tagliarti di nuovo; e così per sempre senza riuscire davvero mai a metterlo da parte.

Mancuso lo riportò bruscamente alla realtà. “Vuol sapere cosa c’entra Milano con noi? Semplice: c’è in giro qui in città un bombarolo, un certo Pietro Gori segnalatoci dalla Questura di Bologna…che lo controlla assiduamente. E’ un ferroviere di mestiere e fa parte, anzi ne è il capo, di un vasto movimento anarchico!”. A Bonaloni si accese una lampadina. “Stai a vedere che questo Pietro Gori è anche il misterioso guidatore della locomotiva?” E spiegò immediatamente il suo sospetto al superiore. “Molto probabile. Ha una vera fissazione con i treni ed il suo sogno è quello di  scagliarsi alla guida di questa macchina contro un treno pieno di signori. Insomma, un vero e proprio pazzo…ma non per questo meno pericoloso!”

In altre circostanze, Bonaloni avrebbe ironizzato “sull’assiduo controllo”  operato dai colleghi bolognesi.  Non stavolta. Mai aveva visto così seriamente preoccupato il capitano Mancuso e ritenendolo un ottimo poliziotto, nonostante la loro frequente diversità di opinioni, attese docilmente gli ordini per evitare, con ogni modo possibile, che “quello facesse il botto” come alcuni informatori infiltrati nella rete anarchica emiliana avevano riferito, prima che il Gori facesse perdere le proprie tracce.

“Il problema è che questo signor Gori sembra possedere mille facce…Un giorno è biondo, l’altro è moro…un giorno è ben vestito, l’altro è tutto sciamannato…ha la barba e non la ha…è capace di trasformarsi di continuo e sembra anche abilissimo nei travestimenti. Forse in questo riesce a superare anche Fregoli! Inoltre, per motivi tutti suoi, sembra squisitamente letterari, pare che preferisca agire esclusivamente in un giorno della settimana ben prestabilito. Per questo, negli  ambienti investigativi, è conosciuto come il signor Giovedì… e che giorno è oggi?” A Bonaloni sarebbe venuto spontaneo dire “La vigilia di Natale!” Si fermò in tempo ed operò un calcolo rapidissimo. Quindi, soddisfatto come uno scolaretto certo dell’esattezza della sua risposta, esclamò “Giovedì!!!” “Appunto! E’ giovedì! Mettiamoci al lavoro e sguinzagliamo ogni nostro uomo utile per l’intera città…Gori – concluse ad alta voce Mancuso – va assolutamente individuato e fermato sotto qualsiasi veste si stia celando!”.

Per un istante a Bonaloni balenò nella testa che proprio quell’usciere con cui si era poco prima scontrato  giù di sotto potesse essere l’anarchico camuffato. Non ebbe, però, il coraggio di avanzare a Mancuso tale ipotesi che, lo riconobbe prontamente dentro di sé, era dettata solo dall’impeto, ancora non sopito, di vendicarsi dell’inatteso scrupolo di quel pubblico dipendente più che da reali dati di fatto.

Preferì avanzare una nuova richiesta di chiarimento al capitano. “Ma di preciso cosa va facendo questo signor Gori? Cosa di tanto grave ha finora combinato? E com’è che non sta in qualche galera?” Mancuso ci stette un po’ a pensare, come non potesse rispondere immediatamente. Bonaloni che ben lo conosceva, iniziò a convincersi che, innanzitutto, quel misterioso anarchico non era mai rimasto coinvolto in fatti di sangue e che, altro aspetto non secondario, con ogni probabilità l’ufficiale di polizia ne provasse un pizzico di simpatia, perlomeno umana. Non si sbagliava.

“E’ un romantico, se possiamo dire così, un anarchico di altri tempi – poi Mancuso si bloccò temendo di esagerare in comprensione – ma per ognuno di noi c’è sempre un margine di evoluzione, ancora più pericolosa se qualcuno giochicchia con le bombe…Comunque no, non ha mai ferito nessuno…ha preferito affidarsi esclusivamente ad atti spettacolari come quando fece esplodere un’intera edicola nel centro di Bologna perché vendeva, secondo lui, solo giornali reazionari! Ovviamente, dopo aver fatto uscire tutti, proprietario e clienti. Per il resto va avanti e indietro dalle prigioni, ma, in pratica, non esiste alcuna pesante condanna a suo carico. Un mesetto a Bologna, uno a Ferrara, due a Trieste, quattro/cinque a Milano e così via a scendere negli anni… ”

Intanto, la parte più “politica” della riunione tra Sindaco, Questore e Prefetto si era conclusa. Senza particolari strategie aggiuntive rispetto alla conclusione cui era prima arrivato il capitano di Pubblica Sicurezza: fare il possibile per agganciare e fermare Pietro Gori mettendo in campo tutte le forze dell’ordine presenti in città; quindi polizia, carabinieri, Guardia di Finanza e Vigili urbani in ogni zona, periferie comprese, e controllare con una sorveglianza strettissima ogni luogo sensibile e le varie personalità di rilievo della città.

Impresa non facile, sia per la frenesia prenatalizia che stava normalmente sviluppandosi sempre di più in città sia per le necessità amministrative che, opportunamente ricordate con trombonesca sottolineatura dal Sindaco Giannetti,  non potevano di certo essere rinviate visto che nell’ormai prossimo 1970 si sarebbe dovuti tornare di nuovo alle urne per il rinnovo del governo cittadino. Così, cancellare alcuni appuntamenti pubblici sarebbe stato un vero autogol per gli attuali amministratori, già non particolarmente amati ma non per questo ogni volta non puntualmente rivotati.

In più, e la decisione al riguardo fu unanime, esisteva anche un altro motivo importante per non diffondere in alcun modo la notizia di un possibile attentato:  avrebbe significato solo scatenare il panico, magari favorendo in un clima di totale confusione e psicosi anche falsi allarmi e, paradossalmente, maggiore libertà d’azione per un tipo scaltro come quel Gori veniva descritto.

La caccia all’uomo poteva dirsi ufficialmente aperta.

Che fosse un’indagine di tipo straordinario, Bonaloni se ne accorse ulteriormente qualche minuto dopo quando su, proposta del primo cittadino, anche il Prefetto ed il Questore concordarono che era necessario rispondere “a quel criminale con le sue stesse armi!”. All’istante, né Mancuso né Bonaloni compresero l’esatto senso di quelle parole. Il maresciallo, anzi, avrebbe voluto chiedere se anche i poliziotti dovessero dotarsi di bombe a mano da scagliare verso Gori,  non appena lo avessero inquadrato nel loro mirino visivo.

Niente di così definitivo. L’idea brillante del Sindaco Giannetti era che “a travestimento si doveva rispondere con il travestimento!” Al maresciallo fu così affidato il compito meno gradito: guidare una squadra di netturbini! Gli abiti? Direttamente dal deposito comunale. “Non odorano? Meglio – sottolineò Giannetti – perché così tutto sarà più credibile!” Ed attaccò una filippica sugli eroi greci e le loro gesta  che convinsero tutti a rendere immediatamente operativo il piano, sgattaiolando fino alla lunga scalinata e lasciando che il suo monologo fosse davvero tale.  

Quartiere Borgo, ore 15.00

“Ma guarda quello come si è combinato?” “Ma guarda i carabinieri vestiti da elettricisti” “Ma guarda Ferretti (un altro maresciallo) vestito da beccamorto?” L’indagine non era partita propriamente bene. Si stava anzi riducendo ad una sorta di gigantesco gioco di ricerca dei travestimenti migliori e peggiori. Di quelli più riusciti, e quindi credibili, e di quelli più ridicoli. Almeno nei confronti della sua squadra di “netturbini”, Bonaloni fu estremamente chiaro. “Se sento un altro commento di questo tipo, spedisco chi l’ha fatto direttamente in Gallura! A calci, chiaramente e con tutto l’abito puzzolente che porta!  Forza, ramazzate e vigilate…anzi vigilate e ramazzate…magari pulendo la strada un po’ meglio e con un po’ di impegno in più…sennò Gori ad accorgersi che siamo spazzini da strapazzo ci metterà un solo istante!”

La piazza del Borgo era andata gradatamente riempiendosi. Gente di qua, di là, che accelerava il passo come temendo  di non riuscire a fare qualcosa che non si sapeva bene cosa fosse. Bonaloni appostò due dei suoi falsi spazzini nelle vicinanze del nuovo centro per anziani alcuni dei quali, con estrema praticità, avevano preceduto l’ufficialità dell’inaugurazione e stavano producendosi in una briscola all’ultimo sangue. Tiratissima e conclusasi al tie break, cioè alla quinta mano, come il maresciallo capì perfettamente dalle grida dei giocatori, udibili in presa diretta anche dall’esterno. Tutti i sei tavoli erano operativi. Si sbriscolava a tutto andare tra una folla di spettatori i cui suggerimenti e commenti contribuivano a rendere incandescente il clima di ogni singolo match.

La tensione della tenzone era palpabile. Annebbiata un po’, ma solo un po’, dall’intenso fumo di sigaretta, sigari e pipe che trasfigurava quelle figure umane in ectoplasmi. Poi giungeva un salvifico colpetto d’aria e la persona ricompariva quasi per intero prima che una nuova perturbazione grigiastra la inghiottisse di nuovo. Fu proprio durante una di queste mutazioni climatiche che il sindaco Giannetti fece il suo ingresso; dopo aver tagliato con un coltellaccio (le forbici ufficiali erano state imboscate chissà dove, forse trafugate) il nastro tricolore inaugurale senza, in verità, che nessuno se ne accorgesse realmente.

Iniziò anche a parlare con la sua voce baritonale di tradizione ottocentesca, gran-seigneur l’avrebbero definita gli esperti per stile e per morbidezza del canto. Era però destino che i suoi monologhi di quella giornata fossero destinati a rimanere inascoltati. Stavolta a causa dell’eccessivo frastuono che tutto indistintamente sommergeva, trasformando il politico in una sorta di buffo play back vivente. In ogni caso la sua orazione proseguì.

Anche per Bonaloni, nel frattempo introdottosi stabilmente nel locale per verificare che tutto stesse andando bene e che di Gori non vi fosse traccia, si verificò lo stesso problema di comprensibilità uditiva, quando intravide il “coraggioso” Proietti fermo sulla soglia d’ingresso gridargli qualcosa contro senza che potesse captare alcunché. Decise così di fargli incontro. “Presto presto, in via della Verdura…c’è del fuoco ed un uomo che scappa!”

Bonaloni dimenticò la propria mole e si lanciò in avanti con uno scatto tra i più incredibili visti sulla terra. Proietti subito indietro. Si fecero largo tra la folla. Qualcuno, vedendo due scopini correre così veloci, elogiò anche il nuovo servizio espresso della nettezza urbana. Non c’era però tempo per ringraziare. Bisognava correre. Via della Verdura non era poi così lontana. Ma se una bomba doveva esplodere non è che facesse questione di metri di distanza. Scoppiava e basta.

Superarono l’ultimo ostacolo, balzando praticamente sopra un omino che stavolta non ebbe propriamente parole di gratitudine verso quei due forsennati, e giunsero sul luogo segnalato. Vi stavano ancora bruciando alcuni cartoni, accatastati uno sopra l’altro. Poco distante due postini (Proietti suggerì all’orecchio del maresciallo che si trattava di finanzieri travestiti) trattenevano un uomo sgambettante.

Dagli abiti che indossava, giacca e pantaloni lisi all’inverosimile, il maresciallo pensò istintivamente che se fosse stato Gori si era ridotto davvero male. “Ma non me reconusci (riconosci)?” Così fu accolto Bonaloni dal sospetto. “Veramente no! Chi sei” “Ma l’Armandino! Armando Battisti!” Il poliziotto lo guardò meglio e sentenziò. “E’ un poveraccio!” non intendendo minimamente con ciò recargli offesa. Anzi voleva riconoscergli la dignità di saper vivere alla giornata nonostante le traversie passate e presenti che doveva sopportare.

“E quel fuoco?” “Volevo solo riscaldamme, marescia’! Ma con ‘ste dita fredde il prospero m’è caduto ed invece che i giornali ho appicciato (acceso) i cartoni! Povero me…ho perso il mio letto!” Armandino era davvero accorato. “Il mio letto…il mio letto…Tutte a me capitano…” Bonaloni si commosse, chiese ai due finanzieri di liberarlo da quella stretta ormai inopportuna, promettendogli che per la notte di Natale, e magari anche per quelle successive, ci avrebbe pensato lui a procurargli un pasto ed un giaciglio più caldi ed affidabili. “Torniamo indietro, Proietti! Che se Gori ci ha visto, sai quante risate si sarà fatte! Senza contare che, sempre che ci abbia visto, anche i nostri travestimenti si riveleranno ormai inutili a sorprenderlo! Mah!”

Piazza del Comune, ore 18.00

“Sono in ritardo, sono in ritardo!” Il Sindaco Giannetti sembrava non trovare pace. Percorreva nervosamente l’aula consiliare per la sua interezza ripetendo la stessa nenia. “Sono in ritardo, sono in ritardo!”. Era la sua unica preoccupazione, senza che i suoi più stretti collaboratori riuscissero a convincerlo che c’era ancora del tempo per la penultima inaugurazione della giornata (un negozio dinanzi al Palazzo municipale) e per presenziare all’accensione del gigantesco albero di Natale che per la prima volta a Rieti un’amministrazione Comunale aveva pensato di ospitare al centro della piazza.

Il sindaco chiese rassicurazioni anche a Bonaloni, nel frattempo tornato presso la sede comunale. “Mi dica che ce la farò!” Il sottufficiale glielo disse e Giannetti  ringraziò di cuore. Sembrava il bambino più felice del mondo! Mancuso, invece, era sempre più nervoso. “Gori è un anticlericale sviscerato! Credo sarà meglio tenere sotto controllo le chiese ed in particolare la Cattedrale. Non vorrei che combinasse qualche cosa durante la messa di mezzanotte!” Il maresciallo temette di doversi travestire da sacerdote, magari officiante. Mancuso lo prevenne. “Stavolta saremo tutti in divisa! Non c’è davvero miglior effetto deterrente. Del resto il nostro primo obiettivo è evitare possibili tragedie e sono convinto che una nostra presenza, diciamo così visibile ed ufficiale, sarà lo strumento migliore per la sicurezza di tutti! ”

Il maresciallo chiese ed ottenne il permesso di starsene, nel frattempo, nelle stanze del secondo piano del Palazzo Municipale. Più precisamente all’interno della segreteria la cui finestra regalava una perfetta visione della piazza sottostante. “Da qui avrò sotto controllo tutto dall’alto!” garantì al proprio capitano che rispose con un cenno di assenso con il capo prima di aggiungere “Ma stasera la voglio in Cattedrale! In divisa chiaramente. Non faccia come al solito…”

Anche stavolta il “Comandi!” di Bonaloni risuonò come doveva essere, della giusta tonalità e soprattutto rispettoso del superiore e delle disposizioni che impartiva. Quasi il maresciallo non si riconosceva più. E probabilmente la stessa sensazione doveva provarla anche Mancuso. Entrambi erano, però, sicuri che prima o poi i rispettivi caratteri avrebbero avuto la meglio su ogni altro aspetto. Ci avrebbero pensato dopo: ora nelle loro teste rimbombava solo il nome del ricercato, Pietro Gori, e nulla avrebbero davvero lasciato di intentato per fermarne l’azione, qualunque cosa stesse progettando l’anarchico bolognese.

Scrutando dalla finestra e vedendo le persone all’interno degli esercizi commerciali, quelle che semplicemente parlavano, che si salutavano, che si baciavano, che anche si ignoravano, al maresciallo, chissà perché, vennero in mente le scene di un film celebre come “La finestra sul cortile”. “Ma chi era quell’attore…? C’ho il nome sulla punta della lingua…– si sforzò di ricordare meglio riuscendo infine nell’intento- ma sì! James Stewart che, seppur immobilizzato, proprio da dietro ai vetri di casa sarebbe infine riuscito a venire a capo di un delitto domestico!”

Pensò anche di avere un vantaggio: le sue gambe erano perfettamente funzionanti e lo avevano ampiamente dimostrato in via della Verdura, sorprendendolo anche un po’. Quanto a curiosità ed intelligenza si concesse una partenza alla pari con il divo americano.

Il suo sguardo spaziava dall’uno all’altro bar che componevano i confini della principale piazza cittadina. Ogni volta analizzando con attenzione chiunque gli sembrasse “un po’ strano”. Di sicurò non gli parve singolare il fatto che anche all’ennesima inaugurazione, nel negozio posto al piano terra del palazzo proprio di fronte al Comune, nessuno sembrava seguire la verve oratoria del Sindaco Giannetti. In fondo era il suo ruolo ed anche il suo destino. Entrambi affrontati con rinnovata passione. Se poi parlava a vuoto, pazienza.

Palazzo Municipale, ore 18.40

All’improvviso due lampi. Uno per ciascun occhio del maresciallo. Nel destro si cristallizzò l’immagine dell’albero di Natale con due fili di alimentazione posti dietro di esso, uno visibilmente più robusto e ben fissato a terra, adeguatamente protetto; l’altro strisciante in maniera disordinata sui sanpietrini della piazza comunale, quasi alla rinfusa; con il sinistro inquadrò invece alla perfezione un suo collega poliziotto che sembrava montare la guardia al grande abete, da tergo. Probabilmente della Stradale, per la precisione un motociclista della Polstrada per via dei pantaloni infilati impeccabilmente all’interno degli stivali. Però, qualcosa non gli suonava nel verso giusto. Lui che conosceva tutti. non riusciva proprio a dargli nome e cognome. “Bè, è un po’ distante…Probabilmente è Sinibaldi, sì, sì abbastanza alto per essere Sinibaldi!”. Infine, si rassicurò totalmente, quando un carabiniere, anch’egli in divisa, si fermò a colloquiare con cordialità con quel  poliziotto. Si salutarono con altrettanta calorosità e anche questo contribuì a tranquillizzare ulteriormente Bonaloni.

Restava l’albero. Chiamò con voce altisonante Proietti che giunse rapidamente da dietro le sue spalle. La domanda fu secca. “Cosa sai dell’albero di Natale?” L’altro, superato un primo momento di sorpresa, rispose con la genuina baldanza che lo contraddistingueva “Non fa certo parte della nostra tradizione cattolica…era più diffuso nel Nord Europa prima che…” ed avrebbe continuato chissà fino a quando se non fosse stato bloccato da un perentorio “Deficiente!” che Bonaloni gli indirizzò di vero cuore. “Di quell’albero lì, intendevo! E’ stato controllato? E quei due fili dell’energia elettrica?”

Anche in questo caso l’agente Proietti dimostrò di non scoraggiarsi tanto facilmente dinanzi a qualsiasi domanda gli venisse posta e gli presentò al volo un certo Alberto Mariani, elettricista del Comune di Rieti, che spiegò al sottufficiale come “la presenza di quei due cavi fosse indispensabile in quanto il primo, seppure realizzato a regola d’arte, non riusciva a garantire l’intermittenza della luce…Sa quell’albero si mangerà un migliaio di watt l’ora! Per il resto stia tranquillo che il primo che vi mette le mani sopra, gliele taglio seduta stante! Ma vorrei anche che, quando sarà acceso, guardasse con particolare attenzione quello spettacolo di luci.  Io personalmente – lo sottolineò con un orgoglio strano per un dipendente pubblico – vi ho piazzato due palle rotanti…garantiranno un effetto psichedelico! Vedrà come gireranno quelle due palle!”

In effetti, a  Bonaloni giravano. Di sicuro non “verso quello spazio astrale” che, secondo l’elettricista, poteva essere raggiunto osservando bene quel gioco di luci. Piuttosto, il maresciallo fu colpito dall’abbigliamento dell’operaio comunale, soprattutto dal giubbotto che indossava, di un blu setato con striature arcobalenate. Gliene chiese spiegazione. Chissà, forse, a sua insaputa, faceva anche lui parte del piano di travestimento suggerito dal Sindaco.

“Ma no! Subito dopo devo andare ad una festa psichedelica…” “E daje!” borbottò Bonaloni non conoscendone appieno il significato se non che il termine si riferisse a qualcosa “che poteva allucinare”. “C’è una musica che ci aiuta a raggiungere lo…” “Lo spazio astrale!” Lo bloccò Bonaloni, invitandolo subito dopo a smammare con un eloquente gesto della mano destra.

Poco dopo, con ardire, e non poteva essere altrimenti, fu Proietti a consigliare al maresciallo di tornare a guardare da quella finestra che non sembrava finire mai! Alta quasi tre metri, permetteva un’ampia veduta verso l’alto sui balconi e, in buona parte, anche sui tetti delle case poste di fronte. Bonaloni si limitò ad un grugnito nervoso ed optò, ma come se fosse stata una scelta propria, per l’osservazione aerea, utile anche a dare una dimensione più riposante ai suoi occhi, ormai quasi doloranti per la lunga e sfiancante ricerca visiva verso il basso che aveva fin lì condotto senza interruzioni.

“Mah! Visto che questa vetrata mi consente di vedere perfettamente anche il cielo stellato, se non troverò Gori almeno precederò quell’imbecille – il riferimento per nulla velato era per l’elettricista comunale – nella ricerca dello spazio astrale!” Prima, però, voleva dare un ultimo sguardo al poliziotto dietro l’albero per sincerarsi che fosse ancora lì di guardia. “Ma non c’è più? Dove sarà andato a finire? Non lo sa che le consegne non vanno mai violate?”.

“Sarà andato al bagno o al bar?” Lo tranquillizzò Proietti prima di rispondere alla successiva richiesta del sottufficiale. Riguardava il programma. “Alle 18.50, quindi tra un paio di minuti, prenderà la parola…” Bonaloni lo anticipò “Il Sindaco!” Proietti sorrise e proseguì. “Quindi alle 19.00 in punto la vera accensione dell’albero di Natale…” “Va bene, va bene…vai pure! Io resterò qui, così neanche stavolta ascolterò il discorso di Giannetti”. Tanto bastava per tirarlo su di morale. Non di tanto però, perché continuava ad avvertire la netta sensazione che qualcosa continuasse a non essere come poteva sembrare.

Piazza del Comune, ore 18.50   

Era lì ai piedi dell’albero. L’instancabile Giannetti era pronto, più pronto che mai ad iniziare l’intervento oratorio che, secondo lui, avrebbe acceso gli animi oltre che lo stesso albero di Natale. In molti, moltissimi erano già pronti allo sbadiglio preventivo come efficace antidoto al fiume di parole che si sarebbe su di loro riversato di lì a poco. In ogni caso avrebbe attirato l’attenzione di tutti verso la sua persona. E fu questa riflessione a impensierire di nuovo Bonaloni che, abbandonato definitivamente l’infinità del cielo, proseguiva ininterrottamente a fissare lo sguardo verso punti differenti della piazza alla ricerca di un qualcosa di inusuale.

Pur non ascoltandolo, opportunamente protetto dall’effluvio verbale del primo cittadino dal vetro della finestra e dalla distanza, il maresciallo sembrava divertirsi nel vedere quella bocca completamente spalancata, storta, dritta in diagonale, simmetrica ed asimmetrica, tanto era impegnata a disegnare chissà quali roboanti figure retoriche. All’improvviso fu attratto da un qualcosa di ben diverso: un paio di pantaloni! Aveva già avuto la sensazione che vi fosse qualcosa di stonato nella divisa del poliziotto ora tornato a montare la guardia dietro il gigantesco albero di Natale. Ora ne era certo!

Bonaloni sembrava non darsi pace. “Come ho fatto non notarlo prima? Mancano le bande rosse sui lati! Quello non è un collega! E’ Pietro Gori travestito…Ci ha preso tutti quanti per il culo e…- guardando con maggiore attenzione – accidenti!…c’è anche un terzo filo lì dietro…e mi sembra che salga verso l’alto…sì verso l’alto…verso le palle di Natale!”

Scattò all’indietro. Gridò come un ossesso il nome di Proietti. “Presto, vieni con me…le bande…le palle…” L’altro poliziotto non capiva assolutamente nulla. Essendo però risaputo che chi è coraggioso non deve mai porsi troppe domande, la guardia non ebbe esitazioni nel seguirlo. Avrebbe affrontato l’ignoto…le bande e anche le palle.

Le scale del Comune erano misteriosamente ampie. Bonaloni le maledisse perché non riusciva a trovare un tempo di discesa univoco e regolare come avrebbe invece fatto con una scalinata normale. Non riusciva proprio a dare misura alla sua falcata. Subito dietro Proietti nella cui mano destra era comparsa la Beretta d’ordinanza: “Va bene non avere paura di niente ma è altrettanto giusto affrontare questa stessa paura ben armati”. Il maresciallo approvò. A piano terra colse, comunque, un primo soddisfacente risultato mandando gambe all’aria quello stesso usciere che in mattinata gli aveva impedito l’ingresso in Comune. Era solo finito nella direttrice di corsa del sottufficiale che non aveva potuto fare a meno di urtarlo, con involontaria vigoria, perché gli lasciasse libero il passo.

In Piazza il problema era ben diverso. L’ostacolo era costituito da una vero e proprio muro umano che non poteva certo essere superato con il medesimo slancio. Furono così necessari spintoni e grida per aprirsi a fatica il primo varco, quindi altri spintoni ed urlacci. Proietti perse anche il cappello di ordinanza nella calca sempre più nervosa che si stava creando. Fu inutile ogni tentativo di recupero sotto la folla che sembrava muoversi ritmicamente come una fisarmonica. Si apriva per l’istante necessario a consentire il passaggio dei due poliziotti e si richiudeva subito dopo in una barriera di nuovo impenetrabile.

Bonaloni e Proietti riuscirono infine nell’intento di raggiungere il lato opposto della Piazza. Per il maresciallo sentire ancora la voce profonda del sindaco Giannetti rappresentò la più bella delle notizie: sin quando parlava, l’albero di Natale non poteva infatti essere acceso e Gori, suo malgrado, doveva restare in attesa. Riuscì ad intravederlo ancora fermo. Poi, improvvisamente, l’anarchico infilò la mano destra in una tasca della giacca per tirarne fuori un accendino. Da lì a qualche istante avrebbe dato fuoco alla miccia che partiva proprio da sotto i suoi piedi ed il patatrac sarebbe stato inevitabile.

Piazza del Comune, ore 19.01

L’albero si accese e sfavillò di decine di luci. Bonaloni e Proietti si distrassero un solo attimo, anche per via del boato di giubilo che la folla aveva lanciato verso il cielo, ammirando quello splendido gioco di colori illuminati. E Gori non perse certamente tempo nel far scattare il suo piano: tra una decina di secondi l’innesco infuocato avrebbe attivato le palle natalizie esplosive. Non c’era altro da fare che gettarvisi sopra e tentare di spegnerlo a mani nude. Cosa a cui provvide il poliziotto più giovane attraverso un tuffo spericolato verso il suolo; con un’angelica scivolata di petto raggiunse appena in tempo la miccia e la neutralizzò, assestandovi sopra un robusto colpo portato dall’alto verso il basso. Quindi, mostrando impavido la mano un po’ bruciacchiata, sorrise a Bonaloni scagliatosi nel frattempo contro l’attentatore che era rimasto stranamente immobile come sorpreso dal fatto che qualcuno avesse scoperto il suo folle piano e lo avesse bloccato.

Non oppose resistenza. “Non mi è mai successo prima…non mi è mai successo prima…” continuava a ripetere mentre Bonaloni gli affibbiava due, tre, forse anche una decina, di calci nel culo come prima reazione nervosa di fronte al pericolo ormai cessato. “Potevi fare una strage se non ti fermavamo!” Gli gridò in pieno volto il maresciallo senza che l’altro replicasse qualcosa. “Sei un assassino! Altro che un anarchico romantico e non pericoloso per gli altri! Sei un assassino…anche se non hai ucciso nessuno…Ma solo grazie a noi!” Pietro Gori lo scrutò con uno sguardo che all’inizio apparve a Bonaloni come incartapecorito. “Assassino io? Ma quale assassino! Per due, tre palle mezze piene di innocuo esplosivo! Avrebbero fatto bum e si sarebbero dissolte. Più o meno come un moderato botto di capodanno. Era un gesto dimostrativo! Altro che strage! Solo un gesto dimostrativo contro il Natale, contro i sindaci! Contro il potere costituito!”

Il maresciallo, così tanto per precauzione, gli regalò l’undicesimo calcio nel culo. Poi si aprì al dialogo. “Va bene, vedremo se dalle perizie giungeranno conferme alle tue affermazioni…in ogni caso, stavolta non te la caverai così facilmente!” “Ci sono abituato!” Rispose l’anarchico con inattesa fierezza. Bonaloni aveva però anche qualche altra curiosità da soddisfare. “Ma perché hai scelto proprio Rieti?” “Ma io di Rieti non sapevo neanche l’esistenza! Un amico mi ha portato qui in auto da Bologna dicendomi che sarebbe stato facile raggiungere Roma, per scoprire che la vostra maledetta ferrovia non è neanche collegata alla capitale! Ed allora cosa dovevo fare…le palle natalizie le avevo già confezionate…la falsa divisa l’avevo pronta in valigia ed ho pensato di darvi un po’ di fama…L’anarchico che fa esplodere l’albero di Natale in una città di Provincia! Non avrebbe avuto la stessa risonanza di Piazza Navona…il mio vero obiettivo…però mi sarei accontentato!”

“E la locomotiva? Cosa c’entrava la locomotiva? “Lei saprà sicuramente che ho lavorato nelle Ferrovie dello Stato e sono un maestro nel guidarle…così pensavo di poter raggiungere Roma con quello splendido esemplare che avete laggiù alla vostra stazione…salvo poi scoprire…” “Salvo poi scoprire – intervenne il maresciallo – che la tratta, in ogni caso, non sarebbe mai giunta a Roma, anche se lo scambio non ti avesse tradito!” Qui Gori lo sorprese completamente. “Lei è stato veramente bravo! Mi piace confrontarmi con uno sbirro dotato di una intelligenza come la sua…Tutti gli altri no…per cui da adesso in poi (ed indicò i colleghi di Bonaloni che stavano arrivando in folto gruppo)…mi dichiaro prigioniero politico…E non se ne parla più!”

In effetti non aggiunse più neanche una parola. Neanche di fronte al Sindaco Giannetti che gli propinò sotto il naso una severa lezione sulla democrazia, da Pericle ai nostri giorni. Racchiusa ovviamente in un Bignami oratorio lodevole almeno nelle intenzioni. Non certo per Pietro Gori che, oltre a non aprire più bocca, non mosse più neanche un muscolo del proprio corpo fino a quando Mancuso non dette ordine di portarlo via di peso.

L’unico a non darsi per vinto fu il primo cittadino che, travolgendo di elogi il povero maresciallo e l’altrettanto sventurato Proietti, promise solennemente ad entrambi, nei giorni successivi, un ricevimento ufficiale in Comune per la consegna delle giuste onorificenze cittadine. Quali fossero, è sempre rimasto un mistero. Giannetti fu rieletto. Della sua promessa non rimasero che parole.

                                           Paolo Rotilio