Prosegue la raccolta di racconti incentrati sulle vicende del Maresciallo Bonaloni al centro di Rieti. Questa volta, il racconto di Paolo Rotilio, autore de “La notte in cui morì Nero Wolfe”.

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                                                                 “Detesto chi fa i baffi alla Gioconda,

                                                         ma non ho niente da dire

                                                                                        a chi la prende a pugnalate” 

  Ennio Flaiano 

 

Sulla cima di via del Porto, due uomini. Uno grande e grosso. A modo suo bello. O meglio, a modo di vedere (e di giudicare) di tante donne che ne apprezzavano le fattezze regolari, e decisamente maschie, del viso oltre che, per insondabile mistero femmineo, la tanta “ciccia” che seppur tonica e compatta, non faceva di certo difetto in quel corpaccione. Forse la ritenevano, quella robustezza, una sorta di barriera protettiva. Che poi a quell’uomo, al secolo Bonaloni Ernesto, non importasse granché proteggere in quel senso lì tutte quelle donne, se non che fosse stato in pieno e coscienzioso servizio, era un discorso davvero ben diverso.

L’altro essere umano, proprio no. Di statura di gran lunga più ridotta, era distinguibile solo per un capoccione irregolarmente romboidale, davvero smisurato rispetto al suo fisichino esile, esile posto su due gambe straordinariamente sganganate. Il fatto poi che fosse vestito a festa, lo rendeva, se possibile, ancora più brutto. Come un pesciolino (brutto, ovviamente) fuor d’acqua. O, nella fattispecie, come un contadino (sempre brutto) che fosse stato scarporito (sradicato) via dalla sua normale vita campestre, vero regno di Asvero Giovannelli.

Bonaloni non si era potuto esimere dal chiedergli, nell’ordine, perché gli avesse dato appuntamento in quel preciso luogo e perché si fosse tanto prodigato a vestirsi così bene. Oddio, proprio così bene no, con quella giacca nera minigonnata ed i pantaloni color avorio, leopardati qua e là da macchie di terra. Infine, il busto infagottato in un maglione a collo alto, forse scuro, forse no, di almeno un paio di taglie in più del dovuto. La risposta arrivò dopo un lungo sospiro. “Devo andare a trovare mia cugina!” E giù un altro respiro profondo.

Riuscì solo a comprendere che il suo amico Asvero fosse abbastanza emozionato. Nulla di più. Soprattutto non capiva cosa c’entrasse lui in quella visita parentale altrui. Glielo chiese. “Sei il mio migliore amico!” fu l’immediata replica. Bonaloni avvertì al proprio interno un pizzico di commozione ed orgoglio. Non necessariamente in questo ordine.  “Ed anche un esperto di fiori!”aggiunse subito dopo il contadino, sorprendendo completamente il maresciallo ignaro di possedere tale specializzazione. Asvero provvide allora ad una sorta di promozione floreale sul campo. “Non lo hai detto a nessuno… ma io so che continui a sentirti con quel tuo amico americano fissato con le orchidee! Sì, proprio quello che era morto per finta…””

Bonaloni avrebbe voluto negare. Biascicò solo un “E allora…?” vagamente interrogativo. Probabilmente intendeva suggerire al suo amico di farsi i fatti propri. Non vi riuscì minimamente.

L’altro passò, infatti, decisamente al contrattacco. ”Allora – riprese Asvero – se quello, intendo quello Nero… continua a parlarti, significa che anche tu condividi la passione per quei fiori strani! Lo saccio (so) per certo! Ve pigliate alla perfezione! Tu e ‘illu americanu! Specialità, colori, specie rare! Ti ha insegnato tutto e tu sei stato un allievo perfetto!” Il maresciallo sospettò fortemente che non fosse l’unico, e privilegiato, interlocutore telefonico reatino de illu americanu. Il suo amico contadino glielo confermò secondo il suo personalissimo stile. “Lo dice anche un cantante famoso che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Precisò, facendogli ben comprendere che, almeno per quanto riguardava qualsiasi “lavoro sporco”, lui non era proprio secondo a nessuno. Neanche a quella mente così raffinata di cui, anzi, era divenuto un fertilizzante suggeritore. “Roba da matti!” pensò il maresciallo, sorvolando però che “tra i matti” stavolta avrebbe, a pieno titolo e merito, dovuto inserire anche lui stesso.

Piuttosto rimase non poco stupito dalle conoscenze canterine di Asvero. In particolare di quell’ombroso cantautore genovese, di cui, a rigore di logica, il contadino della Piana reatina non avrebbe dovuto sospettare neanche l’esistenza. E così era. Solo che la spiegazione di tale ignoranza superò di gran lunga la pur allenata capacità di Bonaloni di non farsi prendere in contropiede da Asvero “De che? De cosa? Andrè? E chi lo conosce? Io saccio solo ogni cosa che parla di campo! E ‘sta canzone ne parla, fregate! Eccome se ne parla!”

Davvero, meglio tornare alla cugina. “Chi è? Presumo che abiti da queste parti?” Chiese Bonaloni, ancora scosso dalle rivelazioni in serie ricevute da Asvero. “Ma è la Gioconda!!!” Al maresciallo stava per prendere un colpo. Temeva che, chissà come, il suo amico contadino volesse anche impartirgli una lezione di storia dell’arte. Sarebbe stata di sicuro originalissima. “Un quadro? Ma quale quadro? La Gioconda, Gioconda Giovannelli, è mia cugina, quella che dobbiamo andare a trovare! E sorride, sai! Ha il più bel sorriso del mondo, sai! Ed è appassionata di fiori, sai! Ma solo di ciclamini, sai!” Bonaloni lo bloccò, sicuro come era che al quarto “Sai” ricevuto avrebbe cercato in qualche nodo di ucciderlo.

Cercò anzi di rifarsi. Per quel che poteva. “E sai – lo sottolineò con forza– almeno dove abita questo fenomeno di tua cugina?” non sperando certo di colpire nel segno. Asvero Giovannelli ignorava infatti candidamente dove fosse di preciso la casa della Gioconda! “Non vado a trovarla da quarant’anni! In una di queste case…so’ sicuro, fregate, in una di queste case!” Il maresciallo lanciò lo sguardo in giù verso la ripida discesa di via del Porto, fino a che la sua capacità visiva si infranse contro un’abitazione posta a gomito sulla curva che immetteva sul ponte romano; da qui nel quartiere Borgo, sempre pronto a dividersi su ogni cosa con l’altro rione storico di San Francesco, dal vecchio porto fluviale alla sempre aperta questione di chi rappresentasse il vero cuore popolare della città.

 “Ma saranno oltre un centinaio, le case in questa strada…Dovremo vederne una per una…” “Ma no! Solo quelle coi numeri pari!” Bonaloni per poco non svenne. Di sicuro preferì non capire se il suo amico avesse volutamente fornire una risposta spiazzante (riuscendovi) o se dentro quel capoccione misterioso avesse inconsciamente conservato almeno un minimo dettaglio circa l’indirizzo reale della cugina.

Due, quattro, sei, otto, dieci, dodici. Un Giovannelli si trovava al civico 14 di via del Porto. Ma non era la Gioconda. “Sai, marescià, qui a Rieti noi Giovannelli sèmo proprio tanti!” Disse, divertito il contadino, fulminato immediatamente dallo sguardo inviperito del maresciallo. Finalmente il 26. Era lì. Gioconda Giovannelli abitava in quel palazzo. A Bonaloni sembrò ugualmente che qualcosa non fosse al proprio posto. Era una palazzina, slanciata per una  decina di metri, in stile liberty. Con quattro balconi, due per piano, altrettanto liberty. Esemplare in tinteggiatura ed in mantenimento. Era mai possibile che una cugina di Asvero risiedesse in una casa tanto perfetta?

Fu lo stesso Asvero a bloccargli qualsiasi altro quesito interno. “E’ la parte nobile della famiglia! Sai, marescià, noi Giovannelli…” “Si, sì ho capito! Voi Giovannelli a Rieti siete proprio in tanti…” e, sollevandolo quasi di peso, si incaricò direttamente di suonare il campanello di quella casa, trillante anch’esso eleganza e raffinatezza.

Prima che il robusto, ma non alto, portone si aprisse con uno scatto automatico comandato dall’alto, il maresciallo notò che a sinistra dell’ingresso vi era un altro campanello, con su dipinto (proprio così, apparendogli fin da subito chiaro il percorso delle pennellate) un altro nominativo: Lisa Gherardini. Non gli sembrava sconosciuto. Anzi. Fece anche un paio di giri all’interno della sua testa, quindi si appisolò quieto in un angolino della mente nell’attesa di rimbalzare indietro, prepotente, quando la memoria gli avesse dato soddisfazione. Chiederlo a Giovannelli: Neanche per sogno?

Eppoi come fare a chiederglielo? Quel dannato si era già infilato dentro l’atrio e stava salendo il primo gradino della scalinata, quando Bonaloni lo riacciuffò di peso per la collottola. Se non chi fosse Lisa Gherardini, aveva pur sempre qualche altra cosina da chiedergli. Provvide. La risposta a voce più bassa del consueto non tardò ad arrivare. Prima Bonaloni dispensò saggiamente il suo amico dal non fornirgliela nel padiglione auricolare, così di evitare almeno stavolta che i bisbigli di Giovannelli lo riempissero di lingua e del relativo prodotto salivare.

“Siamo qui per pranzo! Non è forse ora di pranzo? E’ non è forse vero che le zuppe di verdura della Gioconda sono famose in tutta la città…vedrai!” Bonaloni lo guardò torvo certo che Asvero non l’avrebbe mai scomodato se non in presenza di un qualcosa che riguardasse anche la sua attività poliziesca. “E va bene! – replicò l’amico un po’ incazzato, perché di solito spettava a lui di indovinare i pensieri del maresciallo – è scomparso un ciclamino!!!”

Poi vedendo Bonaloni in procinto di perdere la pazienza chiarì ancora meglio. “Mica un ciclamino qualsiasi, sai! E’ un creticum, mica cazzi!!!!” La spiegazione scientifica non poteva essere delle migliori. Solo che, ovviamente, Bonaloni non aveva capito neanche uno di quei “cosi” citati per ultimo da Asvero.

Il contadino sbuffò e chiarì di nuovo. “Un ciclamino creticum! Si chiama così perché viene da Creta! Mica ci voleva tanto a capirlo eh! Quelli bianchi sono già particolarmente rari. E questo, sai (Asvero lo rimarcò, accentuando la sua poco gradevole voce nasale, come si divertisse) era addirittura nero! Nero, capisci, marescià. Unico al mondo. Un creticum nero! Ed ora è scomparso! E siccome tu sei esperto di indagini e di fiori, sei anche l’unico in grado di ritrovarlo! Semplice no?” Bonaloni non sapeva se sentirsi onorato o se quella fosse la storia più surreale in cui Asvero lo stava cacciando. Scelse la prima ipotesi e salì con decisione le scale. “Tu, dietro di me!” Asverò obbedì docilmente, avendo già raggiunto il proprio scopo.

La Gioconda era intanto comparsa sul pianerottolo. Non che il maresciallo si attendesse un gran bella donna (ci aveva un pochino sperato visto che i “Giovannelli erano così tanti!”), ma un sgorbietto simile non lo avrebbe mai immaginato. La prima comparazione fu con il Calimero della pubblicità televisiva. “No, no – abbandonò subito il pensiero – troppo carino…il Calimero…”. Piccolissima, vestita interamente di nero, calze e ciabatte comprese. I capelli bianchi, completamente bianchi, erano raccolti in un’acconciatura a grappolo d’uva, che sembrava rendere ancora più minuto il viso già minuscolo ed ossuto di quella donna. Infine, il sorriso. Ampio ed insistente. Senza trentadue denti. Nel senso che neanche uno era più presene in quella bocca che gli parve smisurata.

Avvenne però un fenomeno strano. Più lo guardava, più quel sorriso sembrava rapirlo. Era stranamente coinvolgente. Irradiava una bellezza che più particolare non si poteva proprio immaginare. “Ogni Gioconda ha un suo mistero!” Pensò Bonaloni.  Per Asvero tutto era più semplice. “Una brutta bocca non può che avere il più bel sorriso del mondo! Perché in esso  esiste solo sincerità! Impara, marescià! Facile sorridere, se sei Claudia Cardinale, o comunque una bella donna. Ma quei sorrisi sono veri? Rifletti, marescià, rifletti…” Il maresciallo sorrise. Di cuore.

Poi si rivolse alla anziana donna. Si aspettava che gli parlasse subito della recente “perdita”. Non fu così. Lo introdusse in una stanza grande, solo per metà piena di sole. Bianco, rosa, rosa pallido, magenta. Era tutta una fioritura di ciclamini. Dai più comuni a quelli più impensabili. L’Africanum, il Neapolitanum, il Persicum, il Repandum. Fino ad una zona d’ombra, regno incontrastato – spiegò la Gioconda, sempre sorridendo (Bonaloni non si spiegava proprio come facesse a parlare e sorridere in contemporanea) – del Cyclamen Purpurascens o Europaeum. “E quello che può trovare nei boschi – gli spiegò senza alcuna saccenteria la donna – Si nasconde, ma non troppo – puntualizzò – tra le rocce…altrimenti, se non volesse farsi vedere, non avrebbe di certo quel meraviglioso color rosa carminio! E quest’altro è il Coum, con i suoi fiori compatti, leggermente schiacciati ed a forma tondeggiante. Che meraviglia!”

Fece qualche passo in avanti. A metà esatta tra la luce ed il moderato buio di quella stanza. “Le presento il Ciclamino bianco di Creta, uno dei più rari e purtroppo in via di estinzione.” Precisò con orgoglio. Quindi, spegnendo improvvisamente il sorriso, indicò a Bonaloni un vaso quadrato di colore avorio, con il terriccio ancora umido e smosso.

 “Lì viveva il Creticum nero, simile a questi bianchi, ma nero, capisce! Non vi era altro esemplare al mondo!” Bonaloni avrebbe voluto abbozzare un “Lo ritroveremo, non si preoccupi” quando fu preceduto dalla Gioconda. “E’ stata la Lisa, Lisa Gherardini…è cattiva sa! (Bonaloni stavolta sorvolò, di fronte a quello che doveva proprio essere un vizio verbale di famiglia!) Tanto cattiva, sembra quasi la mia alter ego!”

Asvero, fino ad allora rimasto in silenzio, fece un salto all’indietro. “Alter ego! E che sarà mai?” Bonaloni si scusò per lui. La Gioconda tornò a sorridere. “Asvero è stato sempre così caro ed anche stavolta si è prodigato per aiutarmi!” Il maresciallo, piuttosto, era interessato a questa Lisa Gherardini. “Alter ego! Un altro io…sono vicino a ricordare…” Si sforzò. Nulla. Dopo un altro paio di giri all’interno della sua testa, quel nome finì di nuovo in quell’angolino mentale dove si era precedentemente rifugiato. Solo un po’ meno nascosto, quasi fosse lì lì per affiorare. Comunque, sentiva che il momento del ricordo era davvero più vicino.

La Gioconda chiuse a fatica un ampio tendone. Ma non completamente, lasciandone una porzione sghemba dove la luce faticava un pochino di più ad entrare. “Non è proprio facile – precisò sorridendo ancora – mantenere la giusta ambientazione per questi fiori così meravigliosi. Vanno curati come bambini”. E lo sguardo della donna, posatosi collettivamente su ciascuna di quelle piante, confermò a Bonaloni che dovesse essere proprio così. Quei ciclamini erano tutti, ma proprio tutti, suoi figli. E lei li amava, da amorevole madre.

Il maresciallo voleva però insistere sulla “colpevole”. “Se sa chi è stato, perché non la denuncia?” “A che servirebbe…mi farebbe altre cattiverie…E poi – disse piombando in una tristezza repentina – chi mi terrebbe compagnia? E’ la mia unica vicina di casa…viene a trovarmi spesso…mi fa qualche dispetto e se ne va…poi ritorna e passiamo altro tempo insieme…come persone normali…anche le più cattive hanno il loro lato buono!” Bonaloni non seppe spiegarselo.

 Ma quelle parole gli procurarono freddo, quasi una ventata gelida lo avesse colpito nel suo profondo. Gli sembrava davvero che il lato oscuro della Lisa non andasse sottovalutato. “E fino a che punto pensa possa essere cattiva?” Chiese, quindi alla Gioconda. “Non lo so. Neanche mi interessa…Anche stamattina è stata qui…appena un’ora fa, poco prima che avviassi il fuoco per cuocere la zuppa…E probabilmente già mi aveva rubato il ciclamino nero! ” rispose la donna con una serenità che fece commuovere all’istante il poliziotto.

Non Asvero, nel frattempo, sfuggito via verso la cucina a controllare la squisita zuppa di verdure. Bonaloni, che sapeva perfettamente cosa stesse per combinare, lo bloccò con un grido immenso che spaventò non poco la Gioconda. “Fermo là! Togli immediatamente da quel calderone il tuo dito assaggiatore!” No, non era proprio opportuno fare una cosa simile in casa d’altri, seppure dovesse lui stesso gratitudine alla straordinaria capacità del suo amico contadino di azzeccare la natura di qualsiasi ingrediente liquido, solo assaporandolo per qualche istante. Asvero sapeva davvero distinguere tutto, anche se quel tutto fosse stato mescolato mesi addietro.

E lo aveva anche salvato (da qui la gratitudine), perlomeno da un fortissimo attacco gastrointestinale, quando stava per ingurgitare un caffè corretto al sambuco!

Ma stavolta, proprio no. Quelle manacce, intrise di chissà cosa, non dovevano neanche sfiorare il delizioso pasto che la Gioconda stava cucinando. Neanche il tempo di pensare con sollievo allo scampato pericolo che fu, però, la donna ad infilare nel calderone l’intera mano destra, leccando poi con indubbio piacere tutta la zuppa che ancora stava colando lungo le cinque dita, così da avere un perfetto quadro d’insieme del grado di cottura, salatura, sapore etc. etc..

Fu una lunga, ed anche poco silenziosa, aspirazione che lasciò di stucco Bonaloni. Anche un po’ schifato, per la verità. “Che dannato vizio di famiglia!” disse ad alta voce guardando, però, solo Asvero. Non voleva, infatti, minimamente creare disagio alla Gioconda, che, difatti, neanche si accorse del rilievo. “Solo un altro piccolo assaggio tra dieci minuti esatti e sarà pronta per la tavola!” Il maresciallo, da buon ospite, fissò con sguardo assassino ancora ed esclusivamente Asvero, colpevole per cuginanza di primo grado. Questo gli bastava.

Due, tre minuti dopo la Gioconda iniziò a tossicchiare. Il maresciallo temette che un suo sigaro, benché conservato spento in qualche sua tasca, emanasse ancora puzzo di tabacco bruciacchiato, talvolta fastidioso anche per i fumatori. Il maresciallo, però, si assolse. Si era un po’ confuso. In quella mattinata, di sigari non ne aveva acceso alcuno. La Gioconda, però, insisteva nel tossicchiare. Bevve un bicchiere d’acqua, che Asvero aveva provveduto a porgerle, e sembrò calmarsi.

Tutto a posto. Era giunto il momento del secondo assaggio. Che quella zuppa fosse bollente non faceva alcuna differenza. La Gioconda spiegò, senza che le venisse chiesto, tantomeno da Bonaloni, che le sue vecchie mani erano ormai così callose, ed abituate al caldo, che solo temperature superiori ai 200° gradi avrebbero potuto causarle qualche “lieve” ustione. Stavolta il maresciallo si voltò completamente, preferendo guardare un calendario di Frate Indovino piuttosto che assistere nuovamente allo scempio finale. E magari avrebbe anche trovato la scusa più convincente per “rifiutarsi” di mangiare quella zuppa così tanto assaggiata.

Un improvviso mal di pancia? Un impellente motivo di servizio? Oppure che la zuppa di verdure non gli piaceva proprio? Oddio, lo avrebbe anche potuto dire prima “Ma a mali estremi, estremi rimedi…” Si stava così concentrando sulla migliore giustificazione da scegliere che proprio non si accorse di quanto di terribile stesse accadendo alle proprie spalle. O meglio non se ne avvide fino a quando non sentì un ben distinto tonfo.

La Gioconda era caduta a terra! Con il corpo interamente tremante. Asvero fu il primo a tentare il soccorso. Le teneva la mano e cercava di tranquillizzarla, mentre la donna veniva ritmicamente scossa da terribili spasmi. Anche Bonaloni si piegò su di lei. Ne prese la piccola testa tra le mani, faticando però non poco a tenerla ferma tanto era forte il tremolio che stava assalendo la sfortunata signora.

 Ordinò ad Asvero di riempiere un altro bicchiere d’acqua. Il contadino eseguì a tempo di record, anche se il poliziotto intuì che sarebbe servito a ben poco, vista l’abbondante schiuma, di un colore misto tra il grigio fumo ed il rossastro, che sempre più copiosa sgorgava da quella bocca ormai esausta. Fuoriuscita favorita anche dall’assenza di una barriera naturale come la dentatura.

Quindi, un ultimo spasmo. Ed un ultimo respiro. La bocca, no. Rimase aperta e non sembrava ancora priva di vita. Era disegnata in una forma di sorriso, come se la Gioconda li stesse magari ringraziando per quanto, ed era ben poco, stavano facendo per lei. Forse, si sentiva ugualmente protetta nel momento dell’addio. Le bastava questo. Solo questo. Un affetto sincero di persone che altrettanto sinceramente tenessero a lei. La stringessero, la amassero, si preoccupassero per lei.

“E’ morta!” Disse visibilmente provato e commosso Bonaloni. Asvero emise un lungo sibilo di dolore, con una lacrima che non si vergognò di fare uscire copiosa. Seguita da un’altra e da un’altra ancora. Poi si drizzò improvvisamente in piedi. Si asciugò con l’indice assaggiatore la parte del viso ancora umido e sentenziò: “Per me l’hanno avvelenata, marescià!” Bonaloni rimase solo parzialmente sorpreso. Quella morte così improvvisa, e quei sintomi, non potevano essere certo frutto di casualità. Probabilmente, Asvero Giovannelli aveva ragione. Ma chi poteva essere stato? “In questa casa c’eravamo solo noi due! – Poi ci pensò meglio – Ma poco prima no! C’era stata la Lisa! Lisa Gherardini era venuta a fare visita alla Gioconda!” Per Bonaloni non c’era altra spiegazione che questa. “Ne sono certo – concluse – ha sicuramente giocato un ruolo decisivo in questa tragedia!”

Su come incastrarla, sia per il furto del ciclamino nero che, soprattutto, per quello che sembrava sempre di più un omicidio, neanche la più piccola idea. Contro di lei c’era solo la parola della Gioconda, il cui corpo privo di vita giaceva però ai suoi piedi. Asvero però c’era. Eccome se c’era! Bonaloni si era francamente un po’ disinteressato alla sua presenza, ritenendola superflua, se non dannosa per lo sviluppo delle indagini. Anzi, il maresciallo era rapidamente andato fuori dai gangheri, vedendo il suo amico infilare di nuovo quel maledetto indice all’interno del calderone.

Ricevette, però, una risposta paralizzante. “Il veleno sta qui! E’ stato il ciclamino nero!!!” Le parole di Asvero lo fecero sentire immediatamente in colpa, avendolo lui stesso bloccato  mentre stava tentando una prima volta di assaggiare la zuppa di verdure. Cercò di biascicare qualcosa, arrivando addirittura ad augurarsi che la prova provata dell’omicidio scomparisse. Inaudito per un poliziotto in “pieno e coscienzioso servizio” come lui. Ma il rimorso, rapido e profondo che di lui si era impadronito, non lo rendeva propriamente lucido. Cercò, quindi, di darsi una resettata mentale. Ci riuscì a fatica, seppure non in maniera completa.

Solo quel tanto che gli bastasse per capire meglio quanto di vero potesse esserci nell’affermazione netta e decisa di Giovannelli che, come il maresciallo ben sapeva, in fatto di veleni, anche i più strani e rari, era davvero imbattibile.

La spiegazione “scientifica” del contadino ebbe un avvio veramente folgorante: “I porci se li possono mangiare tranquillamente!” tale da lasciare basito l’ancora traballante Bonaloni capace solo di comporre, muovendo il volto in avanti, un evidente segnale interrogativo. Asvero, soddisfatto, non si fece pregare ulteriormente. “Voglio di’ che i ciclamini sono velenosi per l’uomo. Per l’esattezza, è il bulbo ad essere velenoso! – precisò – perché contiene una tossina che può essere mortale se ingerita. Se bollita poi…Il ciclamino nero poi…” E rafforzò tale pericolosità con una rotazione continua della mano sinistra aperta, indicante esagerazione, che non lasciava più dubbi su come l’omicidio fosse avvenuto.

Solo che il movente non poteva essere la sola e semplice cattiveria di cui Lisa Gherardini sembrava generosa dispensatrice. Quella donna doveva avere ben altra ragione per agire con tanta spietatezza! Fu ancora Asvero a suggerirgli la soluzione più ovvia. “Marescià, inutile che te rovelli (ti arrovelli)! Basta uscire da questa casa, raggiungere il pianerottolo e suonare il campanello di questa Lisa! E chiedergli, quindi, spiegazioni. Semplice, no!” Poi lo guardò con sincera ammirazione. “E smettila di sentirti in colpa! Ne avresti ragione se solo avessi sospettato qualcosa! Che ci vuoi fare, doveva andare così…E poi – aggiunse per convincerlo definitivamente – non è neanche detto che a quel punto della cottura fossi riuscito a distinguere il sapore del veleno…” Era una pietosa bugia (Asvero non falliva mai alcun assaggio) ma funzionò.

Il maresciallo non parlò. Lo ringraziò increspando lievemente le labbra e si incamminò a passo svelto verso il pianerottolo. Sul campanello, sopra il campanello un piccolo dipinto, di buonissima fattura. “Ma è la Monna Lisa di Leonardo!” Ciò che sembrava da distante un quadrettino vagamente colorato ne era una minuscola riproduzione. Eseguita e completata in ogni minimo dettaglio. A suo modo, anch’esso un capolavoro, seppure in scala così ridotta. E stavolta quel nome e cognome, “Ma sì Lisa Gherardini del Giocondo!” , si accese nella sua mente! In tutta la sua luminosità.

Suonò e bussò. Nessuna risposta. Aveva quasi deciso di sfondare quella porta che l’uscio si aprì con timidezza. Ne apparve, come in un lentissimo scorrere di fotogrammi, una donna ancora bella, con i capelli di un marrone pallido sciolti sulle spalle. Una minuscola riga li divideva, non esattamente al loro centro. La fronte ampia esaltava l’ampiezza degli occhi, fissi in uno sguardo attento, come fosse in una costante posa. A braccia conserte, con la mano destra lievemente aperta all’altezza del polso sinistro. Ed un sorriso appena abbozzato.  Enigmatico. Impenetrabile.

Ai suoi piedi, una prova evidente, almeno del furto. Minuscoli petali neri di ciclamino, che la donna scostò in parte con un piccolo ma evidente calcio. Quasi li disprezzasse. Quindi, senza parlare, voltò le spalle al maresciallo, dirigendosi verso un sediolo in legno, antico e senza schienale, al centro della prima stanza di quella bella casa, tenuta in perfetto ordine. Si sedette con calma, facendo la massima attenzione a non stazzonare la lunga tunica marrone scura, con bordature dorate, che indossava. E così rimase. “Ora sono io la sola Gioconda! Non ce ne sono altre a questo mondo! Sono unica! Finalmente unica!” Furono le sue uniche parole, prima di richiudere le sue labbra in quel sorriso così famoso e sfuggente. A suo modo, una confessione in piena regola. O almeno così il maresciallo la interpretò.

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Un paio d’ore dopo, Asvero Giovannelli e Bonaloni Ernesto si ritrovarono di nuovo sulla cima di via del Porto. Nelle abitazioni di Gioconda Giovannelli e di Lisa Gherardini i rilievi si erano ormai conclusi. Il medico legale aveva confermato in pieno la diagnosi del contadino, la Scientifica stava invece trasportando via numerosi reperti che al maresciallo sembravano comunque del tutto superflui per dare un vero senso all’indagine. “Sarà il giudice istruttore – rilevò a voce alta – a cercare di entrare in quella mente!”

Piuttosto, il poliziotto sforzò la sua fantasia per immaginare come quei luoghi fossero tempo addietro, con le acque del Velino a formarvi una Venezia in miniatura. E la difficoltà della povera gente del posto, le piccole imbarcazioni che navigavano quelle stradine scaricando e caricando merce sulle due sponde. Fino a quel piccolo isolotto fluviale, ormai sommerso, che separava ancora di più i quartieri del Borgo e di San Francesco.

Quindi si rattristò nuovamente. “Che dici Asvè, potevo salvare tua cugina?” Il contadino non rispose. Era immobile a meditare. Anch’egli a braccia conserte, con la mano destra sulla sinistra e gli occhi completamente aperti come fissassero anch’essi un vago obiettivo di riferimento. Ed il sorriso! Ne aveva abbozzato uno simile a quello della Gioconda! Oddio, l’insieme faceva un po’ senso, ma Bonaloni evitò di farglielo notare, convinto che stesse così raccolto per il lutto che lo aveva colpito. Forse stava pregando.

“T’ho già detto di no!” Fu l’improvvisa risposta. Quindi si fermò nuovamente a pensare. Il maresciallo si mise all’erta ben sapendo che, quando ciò accadeva, doveva farsi trovare pronto a ricevere qualcosa di totalmente inatteso. Non si sbagliava. “Ma la Gioconda, intendo la mia povera cugina, avrà lasciato un testamento?” Il poliziotto non sapeva sinceramente cosa rispondere. Ma era stupito non poco conoscendo il più che ridotto attaccamento del suo amico per le cose materiali.

Asvero ribadì la sua capacità di leggergli nella mente. Cosa che, almeno in questa occasione, non dispiacque a Bonaloni. “Ma che hai capito! A me della casa non frega niente! Se è vero che mia cugina non aveva parenti, sono certo che qualcuno, chissà di quale grado, uscirà ugualmente fuori! Ma se scannassero pure! Io una casa in città? Ma nemmeno se me la regalano!” Il maresciallo ora lo riconosceva in pieno. Asvero lo stoppò, prima che potesse dire qualcosa. “Io mi preoccupo dei ciclamini…anzi, mi preoccupo per te!”

Bonaloni non riusciva ad afferrare il motivo di tale apprensione. “Sei tu l’esperto di fiori! Devi fare qualcosa, sennò il tuo amico americano non ti rivolgerà più la parola!” Fu allora che il sospetto che Asvero si sentisse con il Genio d’oltre Oceano divenne ancora più certezza. Ed ancor di più di fronte a quella che gli sembrò una esplicita minaccia di delazione. “E fregate! Devo relazionare sulla vicenda del veleno. Lo dobbiamo catalogare, sai! E come faccio a tacere sulla collezione dei ciclamini – aggiunse con malcelato godimento – Lo verrebbe a scoprire in ogni caso! Ci devi pensare tu, d’accordo marescià!”

Si guardarono. Sorrisero.