“ Omne solum forti patria est, ut piscibus aequor

                                                                    Ut volucri vacuo quidquid in orbe patet”

Reate, Anno 75 d.C.

Una piccola fila di dieci uomini scalzi risalivano la palude, scortati da quattro soldati armati. Avevano appena compiuto una delicatissima missione; poco distante alcuni cavalieri li stavano attendendo e soprattutto aspettavano che l’ufficiale alla guida di quel gruppo di disperati relazionasse all’imperatore in persona.

Flavio Vespasiano fece un brusco segnale con una mano, ricomponendo subito con l’altra il suo mantello bianco dai risvolti di purissimo oro zecchino, che quello stesso gesto aveva spostato dalla schiena. L’ufficiale capì immediatamente che doveva fermarsi e parlare. «Mio imperatore, l’operazione è compiuta!»

Vespasiano non ebbe bisogno di ascoltare oltre. In silenzio scrutò il cielo in direzione del sole per vedere se restasse ancora luce sufficiente per riprendere la via del ritorno. Lo vide leggermente inclinato sul lontano orizzonte. Ancora timido di immergersi completamente in esso. Sorrise. Come se anche quei movimenti celesti gli appartenessero. Poi virò su qualcosa di ben più terreno.

«Via del Sale a parte – pensò subito dopo con serietà – qui c’è bisogno di costruire qualche altro collegamento in più verso l’Urbe. Altrimenti questa Reate così bella rimarrà isolata per chissà quanto altro tempo!» Sorvolò sul fatto che da imperatore, se così avesse voluto, qualche stradina in più avrebbe potuto anche farla costruire. «Vedremo, vedremo. Lastrichiamola intanto di buone intenzioni… qualcuno in futuro ci penserà.»

Tutti gli altri attorno non osarono parlare fino a quando l’imperatore non dette altri ordini precisi che, per quanto terribili, dovevano essere eseguiti all’istante. «Strangolate quegli schiavi e gettate i loro corpi nella palude. Nessuno deve sapere quello che hanno fatto in questa grande giornata sul ponte romano… sul mio ponte romano! Nessuno deve conoscere il mio segreto. Il segreto di Vespasiano. Del Divino Vespasiano!»

A quelle parole, l’ufficiale avvertì un terribile presagio. Anch’egli conosceva il segreto, o perlomeno, aveva osservato il lavoro di quei dieci disperati. Non ebbe però il tempo di riflettere oltre che una freccia lo trapassò. Contemporaneamente altri uomini armati, fidatissimi pretoriani dell’imperatore, si avventarono sui soldati che avevano scortato gli schiavi e li trucidarono senza pietà. Per il resto, gli altri furono strangolati così come era desiderio dell’imperatore.

Il segreto di Vespasiano non correva più alcun pericolo.

Rieti, Maggio 1970

Sul nuovo ponte, il maresciallo Bonaloni e altri poliziotti non riuscivano a capire il perché di quella morte.

Alfiero Prinzivalli, 26 anni, discendente di una famiglia non nobile ma comunque bene in vista nel panorama cittadino, si era spaccato la testa precipitando proprio sul vecchio ponte romano ormai semi sommerso e, da qui, proiettato in acqua da dove era stato ripescato dai sommozzatori dei vigili del fuoco; con maggiore facilità del previsto solo perché il corpo si era impigliato nell’unico ramo di un gigantesco tronco incagliatosi proprio sotto l’antica struttura, impedendo al fiume di trascinarlo via con violenza.

Tra gli agenti, non pochi, se non tutti, erano convinti che Prinzivalli si fosse suicidato, specie dopo aver ritrovato sul parapetto del ponte una lettera. Svolazzava ancora in ogni suo lato restando saldamente bloccata, proprio nel centro esatto, da un sasso che la inchiodava come un povero Cristo di carta, così da impedire a quel foglietto di seguire, chissà per dove e per quanto, la irresistibile volontà della brezza fluviale.

Tutto era, però, sembrato subito incongruente a Bonaloni Ernesto. Innanzitutto quel fogliettino non era una missiva di addio, o almeno non lo pareva. O se lo era, era il commiato dalla vita più singolare ed enigmatico che gli fosse capitato di leggere nella sua ormai lunga carriera. Vi era, infatti, vergata una frase in latino che Alberti aveva subito definito “arabo”.  Le stranezze sembravano proseguire senza sosta: i poliziotti, sempre sul parapetto, avevano anche trovato una scacciacani e una specie di imbracatura, del tutto simile a quelle utilizzate dagli alpinisti per scalare le montagne, con una estremità a forma di cappio indirizzata verso le acque fluviali, ancora penzolante.

Che Prinzivalli avesse tentato anche l’impiccagione, oltre che pensare di spararsi con una scacciacani, sfondarsi il cranio gettandosi a capofitto sulle pietre irregolari dell’antico ponte semi sommerso e decidere, infine, di annegarsi? Ma no, impossibile anche da immaginarlo e quel cappio, poi, era troppo ampio per diametro. Se fosse stato possibile, in caso di esecuzione collettiva, sarebbe bastato a impiccare dieci persone contemporaneamente. Doveva servire per un altro scopo.

Quello più logico e naturale, concluse Bonaloni, trattandosi di un’imbracatura: calarsi giù sul ponte romano. Solo che, evidentemente, qualcosa non era andata per il verso giusto e il povero Prinzivalli era precipitato giù, per quei pochi metri che gli sarebbero risultati fatali.

Per Bonaloni, l’unica spiegazione era questa. Restava però da scoprire, eliminata, quindi l’ipotesi che Alfiero Prinzivalli avesse pensato di togliersi la vita in maniera così variegata, cosa quel giovane fosse andato a fare lì sul ponte in piena notte fino a morirvi in perfetta solitudine.

Mentre quei pensieri attraversavano la mente del maresciallo, seguendo in regolare alternanza traiettorie diritte e sinusoidali, il dottor Laigueglia riportò tutti alla realtà che comprendeva, oltre alla prosecuzione delle indagini, anche la triste incombenza di recarsi a casa Prinzivalli per avvertire la madre – il padre era morto da un paio di anni – del tragico espisodio. “Visita” che tutti cercavano di evitare, nonostante la lunga e consolidata esperienza di poliziotti anche in altre città ben più “cattive” di Rieti, li avesse vaccinati rispetto a quella formalità, seppur dolorosa. Specie per il destinatario.

Alla fine, guarda caso, spettò a Bonaloni e ad Alberti dover percorrere i trecento metri che separavano il ponte da casa Prinzivalli, situata proprio sul finire della ripida salita di via Roma. Fu il maresciallo a bussare un paio di volte sulla superficie lucida e brillante di quel solido portone. Gli parve addirittura che le sue nocche vi scivolassero sopra e che, soprattutto, non producessero alcun rumore. Quindi, ne era convinto, alcuna anima viva sarebbe giunta ad aprire loro.

Guardò così Alberti, i cui occhi erano rimasti invece fissi sul portone, come fosse stato rapito da chissà cosa. Bonaloni pensò agli ultrasuoni di rimbalzo giunti a rincretinirlo ulteriormente. Poi perse la pazienza e gli appioppò un coppino a mano totalmente aperta, il cui scrocchio risuonò così sordo che la porta si dischiuse come per magia. Infine si aprì del tutto e svelò una signora con una abbagliante vestaglia rossa a fiori blu. Elegante e decisa.

«Sono la signora Prinzivalli, con chi ho l’onore di parlare?»

Bonaloni cercò di farsi coraggio. Solo allora si accorse che, come al solito, si era dimenticato il proprio tesserino di riconoscimento in qualche cassetto della scrivania. Confidò che sarebbe bastata la sua autorevole figura.

«Siamo della polizia e…» il sottufficiale ebbe una breve esitazione liberata infine da un innaturale tossicchiare «ci dispiace… insomma sì… ci dispiace davvero doverle comunicare che suo figlio ha avuto un brutto incidente…»

Il maresciallo non era riuscito a finire la frase sperando, come avviene in circostanze analoghe, che la donna capisse all’istante cosa si doveva comunicarle.

Fu così. La signora Prinzivalli fece un leggero passo all’indietro.

«Non abbia imbarazzo, ho capito… ho capito fin da quando mi ha detto che eravate della polizia e che mio figlio aveva avuto un brutto incidente… e poi tutta quegli agenti e pompieri lì in fondo al ponte… doveva essere accaduto proprio qualcosa di terribile…»

Mantenne un controllo inaspettato. Di solito, Bonaloni si trovava alle prese con famigliari disperati. Quella donna no. Seppure sofferente, la sua dignità e fierezza traspirava da ogni suo gesto. A iniziare dal volto che dipingeva una bellezza algida e coinvolgente, presumibilmente anche in situazioni di assoluta normalità.

«Ditemi solamente come è accaduto. Non voglio sapere altro!»

Bonaloni Ernesto, restando sulla soglia, le raccontò tutto quello che la polizia aveva al momento potuto scoprire dilungandosi anche nei dettagli, come di solito non faceva. Sentiva, infatti, di essere di fronte a una persona fuori dall’ordinario e si sentì in dovere di dirle ciò che sapeva come se, così facendo, potesse regalare a quella donna un ricordo in più di suo figlio, addirittura che riuscisse a farglielo rivivere un po’ di più.

«Mi ha detto, se ho ben capito – replicò la signora Prinzivalli con un sottile filo di voce – che Alfiero si trovava sul Ponte Romano…»

Bonaloni rispose quasi meccanicamente «Sì, è proprio così, anche se ancora non sappiamo cosa stesse lì a farci.»

«Lo so io!» disse la signora, con un tono vocale più alto, sorprendendolo.

Bonaloni non sapeva davvero cosa dire e quale atteggiamento assumere. Il suo istinto di investigatore gli suggeriva, anzi lo spingeva a chiedere di più. Il momento particolare in cui si trovava, e soprattutto quello che la donna di fronte stava vivendo, lo paralizzavano.

A sbloccare quell’impasse emotivo pensò la Prinzivalli. «Le ripeto che non deve sentirsi in imbarazzo – disse la donna in maniera categorica – piuttosto entrate e vi farò vedere una cosa che potrà aiutarvi a capire.»

I due poliziotti ubbidirono. Pensavano di essere introdotti nello splendido salone che si trovava di fronte ai loro occhi. Invece la Prinzivalli afferrò, senza esitazioni, una torcia elettrica e, con piglio altrettanto sbrigativo, invitò uno di loro ad afferrare l’altra che si trovava sulla stessa pensilina, fino ad aprire, con decisione, una porticina in legno collocata proprio dietro all’ingresso principale.

«Venite con me e fate attenzione – aggiunse – questi scalini sono vecchi e pieni di umidità. Quindi pericolosissimi.»

Era una scalinata talmente lunga che sembrava scendere nelle viscere della terra, una interminabile discesa a chiocciola che preoccupò non poco Alberti.

«Marescià, io la pistola non l’ho portata…»

«Se è per questo – lo consolò Bonaloni – neanche io, ma non preoccuparti, non c’è pericolo di agguato qui sotto.»

Non ne era del tutto sicuro ma tanto bastò a tranquillizzare il suo sottoposto.

La discesa proseguì per alcuni minuti, senza soste. Alla fine i due poliziotti, preceduti dalla signora Prinzivalli giunsero in un androne buio. La donna indirizzò allora la luce della sua torcia sulla parete che si trovava alla destra del maresciallo centrando in pieno un cavaliere, per la precisione la sua effigie disegnata. Alberti effettuò un piccolo soprassalto, temendo che fosse una persona vera. Bonaloni gli emise contro una specie di grugnito di evidente disprezzo.

«È l’imperatore Flavio Vespasiano!» disse con sicurezza la Prinzivalli. Poi il piccolo fascio di luce si spostò un po’ più a lato, inquadrando un ponte. «È quello romano!» aggiunse «ma voglio farvi vedere un’altra cosa.» e pregò il maresciallo di abbinare le luci delle due torce elettriche per osservare meglio.

«Ecco qui!» Al maresciallo quasi non prese un colpo per la sorpresa. Lì in basso su quel dipinto c’era una epigrafe latina identica alle parole scritte sul biglietto lasciato da Alfiero sul parapetto del ponte: “Omne solum forti patria est, ut piscibus aequor ut volucri vacuo quidquid in orbe patet” o almeno così gli parve, vista la ormai ridotta dimestichezza con quella lingua che pure aveva studiato con buon profitto nei felici e ormai lontani tempi del Classico.

«Ne sono sicura! È questa la chiave del mistero, qui c’è racchiuso il cuore del segreto dell’imperatore, e proprio seguendo questa scritta che l’imperatore ha voluto lasciare, riusciremo a scoprire cosa in questi secoli ha voluto che nessuno potesse ritrovare. Ora il momento è arrivato e mio figlio era colui che questo segreto doveva riportare alla luce.» Si rabbuiò, emettendo infine un flebile lamento.

«Ma questa è matta!» pensò Bonaloni che sorvolò sul colpettino rifilatogli da Alberti  sulla spalla destra allo scopo di potergli segnalare la stessa impressione e, almeno, per riuscire a vendicarsi, solo un pochettino, dello schiaffone ricevuto sul capocollo appena pochi minuti prima.

«So a quello che state pensando – disse la donna – ma vi posso assicurare che il segreto di Vespasiano è un qualcosa che esiste veramente! Questo stesso cunicolo, che va a morire proprio sulla riva del Velino, lo aveva fatto costruire l’imperatore in persona perché nessuno sapesse dove lui decidesse di andare quando veniva nella sua Reate. Perché nessun occhio lo scrutasse o lo inseguisse anche con il solo battito delle palpebre quando voleva recarsi nel luogo che aveva scelto per celarvi il grande segreto.»

«Lei parla – intervenne Bonaloni – come se sapesse di cosa si tratti.»

«Certo che lo so!» replicò in maniera perentoria la Prinzivalli «e glielo dico anche: il Santo Graal!»

«Il Santo Graal? – Bonaloni era quasi sotto choc – vuole dire che quel calice che aveva raccolto il sangue di Cristo…»

«Sì proprio quello! Vespasiano ne era venuto in possesso e aveva deciso di nasconderlo… forse per pura ragione di stato non volendo che un simbolo così forte, lasciato circolare liberamente, unisse ancor di più i cristiani… forse per la sua bellezza, chissà. Ma mi creda,  non sono matta. Basti considerare che quando se ne parlava con Alfiero si sentiva nell’aria un odore misto di rose e sangue e la lancia che aveva penetrato il costato di nostro Signore appariva improvvisa in questo misterioso disegno per poi scomparire quando la nostra ragione non riusciva a cogliere il vero significato della sua comparsa.» A quel punto due lacrime solcarono le guance della donna turbandone la bellezza fredda e matura, ma ancora lontana dall’essere sfiorita. «Dovete aiutarmi – li implorò – a far sì che la missione di cui era stato investito Alfiero possa essere conclusa! Lui – aggiunse con naturale disperazione – ha dato la vita per questo. Vi prego di aiutarmi. Aiutatemi a dare un senso alla sua morte, alla morte di un figlio.»

Bonaloni cercò di guadagnare tempo. Quelle lacrime, quell’implorazione così accorata lo avevano commosso e non lo nascondeva. Alberti invece era rimasto fermo sulla convinzione precedente circa il precario stato mentale della donna.

«Faremo il possibile.» Cercò di rassicurarla il maresciallo. «E stavolta è lei che deve credermi: se quel ponte nasconde davvero un segreto, faremo in modo di farlo venire alla luce soprattutto per rendere giustizia a quel bravo giovane che doveva essere suo figlio!»

La Prinzivalli lo baciò sulla fronte. «Grazie.» gli disse semplicemente.

Bonaloni arrossì un po’ anche se non credeva possibile che quel calice sacro, favoleggiato in ogni epoca e in ogni dove, potesse essere finito proprio a Rieti.

La notte successiva, Bonaloni Ernesto la trascorse per intero ripensando a tutto quanto era accaduto. Era affascinato da quella avventura che aveva deciso di intraprendere e di portare a termine; non tanto per la gloria eventuale che gliene sarebbe derivata quanto perché si sentiva spinto dalla sua innata curiosità, dalla sua voglia di conoscere, di accrescere la sua cultura, insomma di venire a capo di qualsiasi mistero, criminoso o meno che fosse. Il fascino era tutto qui. Nella ricerca stessa.

Così cominciò a studiare varie ipotesi di intervento. Siccome, poi, la moglie Carla, che gli dormiva serafica accanto, veniva sempre messa al corrente di ciò che lui faceva, anche durante il suo pieno e coscienzioso servizio di poliziotto, il maresciallo pensò bene di svegliarla.

«Carla! Carla! Andrò a scoprire il segreto di Vespasiano!»

La moglie fu sul punto di spedirlo in qualche altro luogo, un po’ più volgare. Bastò il solo pensiero, trasmesso da uno sguardo truce, a far comprendere al marito di desistere seduta stante.

L’indomani il sottufficiale convinse a fatica un suo amico fiumarolo a imbarcarsi con lui per raggiungere, via Velino, il vecchio ponte romano. La barca corse il rischio più volte di rovesciarsi, squilibrata com’era dalla mole bonaloniana. E mai si riuscirà a comprendere se, in quei momenti, fosse stata la fortuna ad aiutare i due audaci o gli audaci in questione a sfidarla con tale temerarietà da meritare il premio finale di giungere sani e salvi sul luogo del desiderio del maresciallo.

Bonaloni riuscì a fatica a issarsi sulle rovine del ponte aiutato in maniera ridicola quanto funzionale da Antonio il fiumarolo, detto il filoforme. Proprio così, al singolare, «con un filo solo» come lui stesso aveva preteso, rifiutando l’etichetta più corretta di filiforme in quanto, secondo il suo parere, troppo pluralizzante. Come aiutò il maresciallo? Con un vigoroso spintone verso l’alto elargito in pieno sedere, a mani completamente aperte.

Il sottufficiale non badò poi tanto a quella forma di aiuto, così poco ortodossa. Anzi, la ritenne per certi aspetti beneaugurante.

«Un colpo di culo è sempre quello che ci vuole, specie in queste circostanze!» e pregò Antò, come lo chiamava, di attenderlo.

Iniziò a perlustrare il ponte, e, uno a uno, quei lastroni sconnessi cosparsi di erbacce che davano nel complesso uno spettacolo non proprio esemplare di buona conservazione.

Bonaloni non aveva però tempo di badare al lato estetico della questione, che pure esisteva. Continuò a lanciare occhiate attente in ogni dove, in ogni piccolo anfratto anche se temeva che anche lì potesse uscire fuori un maledettissimo ragno. Non avvenne, seppure un altro pericolo fosse in agguato per Bonaloni, impegnatissimo ora a leggere la traduzione dello scritto in latino, gentilmente fornitagli da un suo amico professore: “All’uomo forte ogni suolo è patria, come l’acqua ai pesci ed il curvo cielo, che si stende sul mondo, agli uccelli.”

«Mah, io ci capisco meno di prima – ammise – visto che almeno quando era scritta in latino un alibi ce l’avevo, così invece…»

Non fece in tempo a chiudere questa riflessione così terra terra che infilò, per giusto contrappasso, un piede in un piccolo buco facendo un capitombolo che preoccupò non poco Antò.

«Marescià, marescià – gridò il fiumarolo – t’è fattu male? Si ancora vivo?»

«Non esageriamo – rispose Bonaloni  con voce un po’ incerta– sto bene anche se mi sentivo meglio prima!» Il maresciallo stava ancora cercando di rialzarsi, facendo pressione con il braccio proprio su quello che doveva essere l’antico parapetto, quando, all’improvviso, rimase immobilizzato con volto e sguardo fissi di mezzo traverso su un misterioso all’insù.

«Oh, marescià – tornò a gridare Antò – che t’è pigliato un corbo?»

Stavolta, Bonaloni non rispose. Fulminato lo era rimasto davvero ma solo da un disegno che aveva intravisto nella parte interna, e ovviamente nascosta, del parapetto. Era un bel pesciolino, tratteggiato magari senza troppa bravura: ma i suoi lineamenti erano chiari e altrettanto lampante era che doveva per forza risalire a tempi andati. Sarebbe stato impensabile che qualcuno recentemente si fosse preso la briga di scendere sul ponte per fare un graffito, per di più ittico, proprio lì.

«Ma perché questo disegno? Cosa vuol dire? Avrebbe avuto una sua logica se si fosse trovato sotto e non sulla parte superiore del ponte…»

Dopo essersi rialzato, Bonaloni continuò a passeggiare come un pazzo su e giù per il ponte romano, o almeno lungo quel piccolo tratto che ancora emergeva. Con sempre maggiore frenesia e trascurando con baldanza il rischio di inciampare ancora e, magari, di cadere stavolta diritto nel fiume. Ipotesi che terrorizzava Antò il quale, già in bilico, a mollo ci sarebbe finito di sicuro per il colossale spostamento d’acqua che l’impatto tra la mole del sottufficiale e il Velino avrebbe scatenato.

Il maresciallo, invece, restò tranquillo quasi fosse un equilibrista di provata esperienza. Poi, altrettanto all’improvviso, si bloccò al centro del ponte, e il suo volto fu attraversato da un sorriso che più largo e radioso è tutt’ora difficile da immaginare.

«Aòh, marescià, che t’è pigliato un altro accidente? T’è venuta una parete

Il fiumarolo non si raccapezzava più. Sembrava essere divenuto ancora più trasparente, per il timore che continuava a crescergli dentro.

Stavolta Bonaloni gli rispose. «Non ti preoccupare, ho capito tutto!» E lo guardò dispensandogli un sorriso ancora più ampio. «Ora aiutami a risalire in barca!»

«Dio mio!» gridò ancora più impaurito l’altro ripensando al viaggio di andata.  

Per Bonaloni, l’ostacolo da superare era però ben diverso: riuscire, una volta tornato a riva, a trovare qualcuno che, con la sua autorità, fosse disposto ad assecondarlo.

Uno storico locale, tra i più tromboneschi e rigonfi di sé, non ci pensò nemmeno. Appena sentì pronunciare il Santo Graal lo fece accomodare fuori dalla porta. Al termine della sua ricerca, il maresciallo riuscì ad agganciare, non si sa bene ancora come, un professorone extra moenia che godeva di stima universale.

La spedizione era ormai pronta per salpare.

Il giorno prestabilito, sul vecchio ponte c’era un quartetto destinato ben presto a dimezzarsi visto che i due sommozzatori della polizia si sarebbero dovuti immergere nelle fredde e nere acque del Velino, in una ricerca che più vaga non poteva proprio essere. Lo stesso professore, a parte il Graal sulla cui ipotetica, molto ipotetica collocazione Bonaloni aveva comunque dato scarne indicazioni, non era stato informato granché sulla metodologia che il poliziotto intendeva seguire per venire a capo del mistero.

«Bene – disse con apparente sicurezza il maresciallo, rivolgendosi ai due sub – ora scendete giù e ditemi se da qualche parte nella zona sommersa del ponte, c’è un disegno, magari piccolo – aggiunse per autoconvincersi – ma un altro disegno ci deve pur essere! O meglio, credo che ci sia… lo spero. Vi prego di trovarlo.»

Il professore aveva ascoltato attonito il proclama di Bonaloni affogare pian piano nell’implorazione verso la coppia di sub, dopo il roboante inizio. Comunque la missione era partita e non restò che attendere pochissimi minuti prima che il primo dei sommozzatori tornasse a galla: «non ho trovato niente, lì sotto è freddissimo e non si vede un accidente!»

«La prego, recuperi un po’ di energie e faccia un nuovo controllo!» replicò Bonaloni non facendo caso che dal boccaglio del sub uscissero ora bollicine d’ossigeno chiaramente incazzate, proprio mentre dall’altro lato del ponte rispuntava fuori il compagno di immersione. Agitava le braccia come fossero pale di un’invisibile elica impazzita. Bonaloni, come aveva fatto qualche giorno prima Antò nei suoi confronti, credette che stesse per tirare le cuoia. Fu lo stesso sub a rassicurare tutti. «L’ho trovato, l’ho trovato!»

«Ma che cosa hai trovato?» gli gridò Bonaloni.

«Un disegno, per la precisione un paio di uccellini, ben impressi su una pietra del ponte. Più o meno proprio sotto dove siete voi!» aggiunse, visibilmente emozionato.

Il professore non ci capiva più nulla. «Mi ha fatto venire qui – disse, rivolgendosi con tono severo a Bonaloni – per dirmi che avete trovato un uccellino o due uccellini o chissà quanti altri volatili ancora? Me ne vado e non provi mai a dire a qualcuno della mia comunità – e sottolineò questo ultimo termine con scientifica superiorità – di avermi coinvolto in tale buffonata!»

«Vada, vada – replicò sicuro di sé Bonaloni – vorrà dire che sarà di un altro la paternità della scoperta del secolo.» Il maresciallo sapeva di aver toccato la corda giusta e, senza avere il tempo di aggiungere altro, vide il professore fare marcia indietro circa le sue intenzioni.

«Va bene, resto!» disse con freddezza l’accademico che, da uomo di intelligenza superiore, aveva anche ben compreso come, in ogni caso, fosse impossibile “fuggire” da quei ruderi senza avere una barca a disposizione.

Per il maresciallo era giunto il momento di dare tutte le spiegazioni, mentre i due sub, ormai esausti, stavano risalendo con lentezza il ponte romano.

«Dopo aver saputo della esistenza di quel pesciolino qui in alto – indicò il parapetto del ponte – avevo già intuito che tutto fosse all’incontrario. Vespasiano non poteva affidare un segreto così importante a segni ovvii e comprensibili per tutti, o tali comunque da mettere immediatamente il ricercatore sulla strada giusta. E allora ecco la grande intuizione: collocare immagini di animali dove non dovevano essere o, se notate, da scambiare per disegni del tutto occasionali.»

Decise di slanciarsi oltre. «Ma Bonaloni ha capito! – aggiunse senza alcuna forma di modestia, utilizzando la forma in terza persona che il professore recepì con evidente disappunto  – Ha capito che ribaltando il tutto, pesci e acqua si sarebbero trovati in superficie mentre gli uccelli sarebbero finiti a volare sotto il ponte e non sopra, come logica avrebbe voluto. Infine, la volta del ponte stesso mi ha indicato l’ultimo tassello, cioè il curvo cielo, regno, appunto, di qualsiasi volatile. In definitiva, caro il mio professore, il disegno dell’uccellino non poteva che trovarsi che sotto i nostri piedi di “uomini forti dove ogni suolo è patria”, tanto per dirla come il poeta citato da Vespasiano.»

Caspita, Bonaloni aveva studiato per davvero!

Il professore aveva ancora qualche timore. Non irragionevole. Un pesciolino e due uccellini disegnati. Nient’altro. «Sai che allegria con Belle Arti, Sovrintendenza, Ministeri e così via… la faccia ce l’ho messa io, mica lei che ripete la lezioncina a memoria! Se potessi gli affibbierei un bello zero spaccato!»

Bonaloni non lo stette neanche a sentire. Si rivolse al sommozzatore autore della scoperta e gli chiese delucidazioni sulla pietra fatale.

«Direi che si regge per scommessa – fu la confortante risposta – anzi se mi date uno scalpellino credo che in pochi minuti ve la butto giù e ve la porto tutta intera! Ora vado di nuovo giù!»

Bonaloni e il sommozzatore troppo ottimista si dovettero però ricredere circa tanta facilità di scassinare il nascondiglio di Vespasiano. Nell’ordine, allo scalpellino si aggiunsero, mazze da fabbro, martelli di varia foggia e anche un forcone che piovve dall’alto, lanciato da chi, beninteso, aveva solo la volontà di dare una mano e non di eliminare qualcuno. Dopo tanti sforzi, il lastrone cedette all’improvviso e, schizzando come fosse un piccolo siluro, per un soffio non creò problemi al sommozzatore che stava lavorando intorno a quella pietra. Sembrava che una forza arcana stesse facendo scivolare tutto via, compreso un involucro che la corrente, non appena la nicchia fu liberata, tentò di portare rabbiosamente con sé, come se proprio il fiume rappresentasse l’ultimo sistema di sicurezza scattato a preservare per sempre il segreto dell’imperatore.

Il sommozzatore non si lasciò sorprendere e, seppure non riuscisse a capire cosa fosse di preciso quell’intruglio di stoffa e di chissà cosa, riuscì ad agguantarlo. Fu il professore il primo a gettare le mani all’interno di quell’ammasso, ritraendole quasi schifato: «Ma qui dentro c’è soltanto della fanghiglia, dei ferracci di latta… altro che Graal!»

Bonaloni, allora, si avvicinò in maniera silenziosa mentre lo studioso, sbuffante all’infinito, tentava nuovamente di andarsene. Dove, chissà.

Il maresciallo voleva vederci chiaro. Era impossibile che un imperatore o chi altri avesse nascosto un qualcosa di così ridicolo valore in un posto tanto impensabile e ben protetto. Così si mise a lavorare di buona lena e recuperati due o tre di quei “cosi” che il professorone aveva definito ferracci, iniziò a strofinarli con il proprio fazzoletto ben inzuppato dell’acqua del Velino. Alla fine, ebbe ragione ancora una volta.

«Guardi qui professore invece di sbraitare. Altro che latta, questo è oro!»

Lo studioso dovette convenire.

«Ma la prego – aggiunse il sottufficiale, piazzando subito dopo una ben acuminata frecciatina – mi faccia finire l’opera e poi tutto questo sarà suo. Del resto, quello che sto facendo, cioè la ripulitura, è un lavoro sporco non degno di lei…»

Con pazienza Bonaloni continuò nella sua certosina opera di lavatura e strofinatura, collocando ogni singolo pezzo che ripuliva nella più esatta possibile collocazione in un puzzle abbastanza complicato. Per meglio riuscirvi, in mancanza di appoggi più dignitosi, si era fatto lanciare anche alcune cassette per frutta e verdura, vuote ovviamente, con cui aveva innalzato una sorta di altare dove poter completare il lavoro con maggiore comodità.

«Ecco fatto!» disse soddisfatto un’oretta dopo, mentre sul ponte, sopra le loro teste, si era ormai radunata una folla abbastanza numerosa.

Il professore fece un passo in avanti, poi fu Bonaloni a facilitare il tutto spostando di netto la sua mole per far ammirare allo studioso il risultato che aveva ottenuto.

Il segreto di Vespasiano stava per essere rivelato.

«Incredibile, meraviglioso – disse stupefatto il professore – i Graal sono addirittura due!»

«Ma quale Graal e Graal – intervenne Bonaloni – è mai possibile che non sa riconoscere neanche due vasi da notte! Diavolo di un Vespasiano, era proprio una fissazione la sua! In uno, quello dell’imperatrice credo, c’è anche disegnata una paperella… poi, mi faccia vedere bene in quest’altro vaso… sì, c’è un orsetto e sotto c’è anche il suo nome… Flavius.»

                                                   Paolo Rotilio